Il mercato della frutta_Porte Aperte a Ladispoli

Il mercato della frutta (il cui titolo esteso è Il mercato della frutta | Fruit market | 水果市场 _ The pure products of Italy go crazy) è una mostra che agisce in modo precipuamente localizzante ma che riallaccia nodi con diverse zone del globo. Un livello intermedio fra la concretezza del mercato ladispolano (mi verrebbe da dire la polpa dei suoi frutti) e la portata intecontinentale che fa parte di un progettualità volutamente ad ampio raggio, è rappresentato dall’ente amministrativo provinciale.

Infatti Il mercato della frutta fa parte di una filiera espositiva sovracomunale sostenuta e patrocinata dalla Provincia di Roma e gestita centralmente da Sala1. Il progetto a cui Il mercato della frutta è legato, ma rispetto al quale si sviluppa autonomamente si chiama PorteAperte.

PorteAperte
Logo PorteAperte

Il progetto si articola attorno al concetto della porta come elemento che consente il passaggio da una dimensione ad un’altra. Considerata elemento di connessione tra due spazi la porta consente l’interazione tra realtà diverse. Elemento di apertura la porta diventa metafora della disponibilità verso altre e differenti culture. A tal proposito i Comuni di Ariccia, Bracciano, Nemi, Ladispoli e Rocca di Papa aprono le loro porte ad iniziative a vocazione multiculturale.

I Comuni scelti rappresentano realtà differenti e sono stati selezionati sulla base del bagaglio storico di appartenenza e delle differenti identità in quanto luoghi dotati di un grande patrimonio di tradizioni e usi locali e che quotidianamente si confrontano direttamente con altre culture.

Ladispoli, ad esempio, ha raggiunto (notizia che apprendo dal sito ufficiale del Comune) il 9 luglio 2009 quota 40000. E pensare che nel 1971 erano appena 7000 abitanti!

Tabella scaricata da Wikipedia e rozzamente modificata

Quarantamila residenti, quindi, di cui ben oltre il 10% provengoo da altre nazioni. Da fonti Istat raccolte sul sito di Litorale Spa si apprende infatti che nel 2007 “la popolazione straniera, con un incremento del 155,4% rispetto al 2002, è passata da 2.209 a 5.642 stranieri residenti”.

Negli articoli precedenti ho messo a fuoco soprattutto gli elementi che rendono Il mercato della frutta un progetto concettualmente autonomo da PorteAperte.

Ricapitolazione:

> Arte ecologica

> Reification in Arendt

> Isacco di Ninive

> Greenness

> Gibran Kalhil

> The location

In questo articolo, invece, vorrei parlare del modo in cui Il mercato della frutta risponda ad una precisa esigenza artistica e politica. Una esigenza che fornisce del filo rosso  a tutte le mostre di PorteApere: far fronte ed interpretare nel modo corretto le sfide che ci si presentano vivendo in comunità vieppiù farmmentate ad opera del processo di globalizzazione. L’aperura all’altro è divenuta una condizione quotidiana che non sempre siamo in grado di assimilare. Uno dei compiti dell’arte è quello di fornire gli strumeni di senso per tesaurizzare queste differenze. Da qui, nello specifico, si dipana la mia analisi artistico-antropologica del fenomeno e la mia impostazione della mostra come un lavoro di ricerca sul campo. Le differenze sono un tesoro, ci insegna Ulf Hannerz; ma, come vedremo , l’euristica riduzione dell’arte a un tesoro culturale si presta a numerose critiche.  Un approccio curatoriale antropologico può aiutare a storicizzare e a individuare i sistemi di valore soggiacenti all’attribuzione di un certo valore all’arte. Nel momento in cui questa si trova attaccata non più solo dalle avanguardie interne, ma anche da una miriade di altri stimoli esterni (che si tende a raggruppare sotto il medesimo concetto-ombrello di arte orientale), allora ecco che si fa sentire la necessità di aprire delle mostre che siano allo stesso momento un luogo di discussione e di ridefinizione dei criteri (imperialistici) ai quali siamo abituati.

In questo contesto di differenze e di valori instabili, la mostra Il mercato della frutta propone un dialogo fra un artista cinese (Wang Ruobing), uno malesiano (Jack Seah) ed uno italiano (Giuseppe Stampone). Per preparare i canali e i codici di questo dialogo al momento sto facendo un lavoro sul ocntesto. In particolare sto elaborando modalità di allestimento e di fruizione sotto molti punti di vista inedite e per molti versi debitrici da un approccio antropologico, sia come taglio artistico sia come impostazione organizzativa. Mi spiego meglio: sta accadendo che un concetto antopologico dell’arte (relaticistico e consapevolemnte feticizzato) sta prendendo corpo nella mia curatorial dashboard (vale  adire nell’insieme di riflesisoni ch condivido, a partire dal blog, con artisti, colabratori e pubblico). D’altro canto, al livello organizzativo, abbiamo dato luogo, con il prezioso ausilio di Alessandro Arata, Tiziana Talocci e Carolina Taverna, a specifiche attività tese a preparare il campo alla mostra: si tratta di attività di ricerca e di comunicazione che si ispirano diretamente ad alcuni modelli di ricerca sociale qualitativa (quali l’etnometodologia, la sociologia visuale, l’antropologia visuale e la ricerca sul campo). Essendo lo scambio e le relazioni umane al centro della mostra, abbamo ritenuto necesario preparare il terreno con una comunicazione personalizzata, indirizzata a ciascuna delle persone che lavora nel mercato giornaliero di Ladispoli (vedi mappa). Tra le attività previste e già messe in opera vi sono: un’attenta documentazione e condivisione fotografica delle attività  che si svolgono al mercato; panel di interviste tese a scoprire le strategie di vendita, le condizioni di lavoro, le provenienze e le aspettative dei lavoratori. A presto pubblicherò del materiale, il quale documenterà quello che è stato il primo fondamentale contatto con gli “abitanti” del mercato. Potrei usare il termine “indigeni”, o “informatori”? Ci sarà del tempo per analizzare i date che andremo raccogliendo e per ragionare metodologicamente sul rapporto artista/curatore/informatori. Questa resta comunque solo una prima tappa di una frequentazione ed una presenza sul campo che sempre più confonderà i ruoli di produzione e consumo. Chi produce la mostra? Chi la frutta? Quale la direzione dei flussi di scambio?

L’arte, checché se ne dica, non si orienta più attra-verso l’altro; vale a dire che non definisce più se stessa e le proprie pratiche in vista di una comunicazione conciliante. Si instaurano, altresì, relazioni dense di ambiguità (v. il mio precedente articolo su Isacco di Ninive ed i relativi commenti) e conflittuali rispetto all’identità personale e collettiva. Oggi non è più accettabile sostenere pratiche  che delineino la propria artisticità in contrasto con ciò che viene genericamente individuato come orientale, diverso. Ma nemmeno la loro assimilazione. Le opere d’arte si dissolvono in pratiche che inglobano già l’altro e non partono dalla tradizione artistica occidentale come ceppo determinante.

Dal punto di vista curatoriale, rendersi conto di questo fenomeno significa provvedere allo smantellamento di ogni orientalismo dialettico, e l’approccio antropologico che sto adoperando in Il mercato della frutta permette di uscire da una dialettica storicamente imperniata (impuntata) sul valore universalistico dell’arte borghese o modernista. Non sta, insomma, al curatore collocato in occidente (quale potrei essere io) di rivalutare le arti cinesi e portarle alla ribalta in Italia ponendole a confronto con artisti italiani. Non parto dal punto di vista di chi dice: l’artista cinese realizza delle opere che riescono ad entrare a far parte del patrimonio artistico universale (secondo un parametro occidentale). Altrettanto semplicistico sarebbe affermare il contrario: vale a dire che l’arte contemporanea si sia aperta e lasciata influenzare da forme e processi tipicamente orientali. Entrambe le affermazioni contengono verità parziali. Basti pensare, da un lato, a quanto importante possa essere per un artista cinese un riconoscimento espositivo in una grande  biennale occidentale o a quanti di essi si formino in accademie occidentali. Per quanto riguarda l’altro lato della questione, non sarebbe difficile elencare un ragguardevole numero di importanti artisti che hanno segnato la storia della contemporaneità abbandonando pratiche tradizionalmente artistiche in favore di modelli molto vicini alla meditazione e alla spiritualità orientali.

Tuttavia ritengo fondamentale mettere in discussione il presupposto del primo estremo tanto quanto quello del secondo.

Il presupposto da inficiare nella prima posizione è il fatto che si dia ancora per scontata la prerogativa dell’arte occidentale nel  rapporto con le altre culture e la presnuznione che sia questa ad aprirsi alle altre culture, integrandole.

Il presupposto da inficiare nella seconda posizione riguarda la storicità e la concezione lineare dello sviluppo artistico.  Non esiste una linea evolutiva univoca che conduce l’arte allo zen. Occorre rivendicare l’assenza di qualsivoglia teleologia e scacciare con forza la naturale tentazione di collocare immaginariamente tale obiettivo in un ideale collocazione esterna.

Si tratta, piuttosto, di una inglobazione cooriginaria; situazione complessa rispetto alla quale il libro di Clifford ci aiuta a smettere di ricercare punti atavici immutabili (frutti puri). Clifford propone una strategia di riclassificazione. Occorre abbandonare l’idea che l’arte sia il tronco di un albero mitico dalle quali ramificazioni e innesti raccogliamo oggi frutti (magari spuri e frammisti, ma tutti appartenenti al grande albero). L’arte è una determinazione concettuale occidentale, che ha solo l’aspetto di un valore universale ed assoluto, ma che è in realtà arbitrario, mutevole e relazionale. “Arte” è utilizzabile alla stregua di qualsiasi altro tag (etichetta), contemporaneamente ad una serie di altri tag, per designare la compresenza di tradizioni e valori cooperanti.

Wang Ruobing, Seeded, 1999
Wang Ruobing, Seeded, 1999

L’apertura delle porte tematizzata nel progetto generale è declinata nel mercato, sulle specificità del contesto. Luogo di scambio per eccellenza, esso è contraddistinto da un tipo di relazione contrattuale per certi versi paradigmatica per segnalare la reciprocità e l’artificialità di qualsiasi pretesa identitaria. Il conterso del mercato ci aiuta a svincolarci dalla logica del’incontro fra pacchetti culturali prestabliti e dalla logica dell’appropriazione, e ci introduce nella reciprocità. La mostra Il mercato della frutta, si pone qunti consapevolmente contro linea di quella che Clifford chiama “la lunga storia di esposizioni «esotiche» in occidente”. L amostra non prevede, infatti, che gli artisti cinesi si siano appropriati del modello artiscitco europeo, non spettacolarizza l’arte orientale, non ricerca un fondo di autenticità (ad esempio nell’are cinese di Ruobing o nella musica senegalese di Sheikh).

7. [Benefattori e beneficati].

Si ritiene che i benefattori amino i beneficati più di quanto coloro che hanno ricevuto del bene amino coloro che l’hanno fatto, e, poiché, ciò accade contro ragione, se ne cerca il motivo. Orbene, per la maggior parte degli uomini è manifesto [20] che il motivo è che gli uni sono debitori e gli altri creditori: come, dunque, nel caso dei prestiti i debitori vorrebbero che non esistessero i creditori, mentre coloro che hanno concesso il prestito si preoccupano anche della sopravvivenza dei debitori, così anche i benefattori vogliono che esistano i loro beneficati per riceverne la riconoscenza, [25] mentre a questi non importa affatto pagare il proprio debito. Orbene, Epicarmo298, probabilmente, affermerebbe che essi dicono così “perché guardano le cose dal lato cattivo”, ma ciò sembra umano, giacché i più hanno poca memoria e aspirano a ricevere benefici piuttosto che a farne. Ma si ammetterà che la causa di ciò si trova piuttosto a livello generale di natura, e che non è la stessa cosa che [30] nel caso del prestito. Nel caso loro, infatti, non c’è nessuna affezione, ma solo il desiderio che il debitore si conservi per recuperare il prestito. Invece, coloro che fanno del bene amano, anzi amano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di alcuna utilità né potranno esserlo in futuro. E questo succede anche nel caso degli artisti: ognuno, infatti, ama profondamente la propria opera, [35] più di quanto sarebbe amato dall’opera stessa se questa diventasse un essere animato. [1168a] E questo succede soprattutto nel caso dei poeti: essi amano fin troppo profondamente le proprie composizioni, volendo loro bene come a dei figli. È quindi ad un caso simile che assomiglia quello dei benefattori: l’essere che ha ricevuto benefici da loro è una loro opera: per conseguenza, l’amano di più [5] di quanto l’opera non ami chi l’ha fatta. La causa di ciò sta nel fatto che l’esistere è per tutti meritevole di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù di un’attività (in virtù, cioè, del vivere e dell’agire), e chi ha fatto l’opera in certo qual modo esiste in virtù della sua attività: ama, quindi, la sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che è in potenza, l’opera lo rivela in atto.

LIBRO IX, disponibile al seguente indirizzo http://www.filosofico.net/eticaanicomaco9.htm