Arte pubblica come azione politica

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Il curatore-antropologo e il ruolo politico dell’artista

(Intorduzione al catalogo di 20eventi 2010)

Nell’introduzione al catalogo della 53. Biennale di Venezia, Birnbaum riflette sulla globalizzazione in relazione alla modalità espositiva dell’evento che, nel 2009, egli è stato chiamato a curare.

Da una parte – egli asserisce – la globalizzazione dà la possibilità di mettere a confronto le produzioni di diversi ambiti locali. Tuttavia esiste il rischio che le differenze culturali vengano livellate. La concezione antropologica che si palesa da queste preoccupazioni, secondo la quale esisterebbe una sfera culturale umana suddivisa in un certo numero di blocchi derivanti da alcuni misteriosi nuclei originari, è di stampo positivista e non sta alla base di 20eventi.

Il rischio è quello di considerare la cultura come un’entità isolata (o isolabile) e farle subire un processo di museificazione simile a quello che fu dell’opera arte: valori di rarità, immortalità, eccezionalità, da conservare contro il deperimento, la riproduzione, la contaminazione. Proprio l’arte del novecento insegna che la cultura stessa è deperibile e da sempre aperta a contaminazioni.

Nel caso di una curatela d’arte che voglia contestualizzare antropologicamente una mostra, se le culture vengono erroneamente concepite come tessere separate di un vasto mosaico allora ci si imbatterà nel vano tentativo di selezionare opere ed artisti in grado di specchiare presunte identità culturali. In questo modo non solo si rafforza un errata visione dell’antropologia, ma si tornerebbe a dar ragione a Platone facendo sì che l’arte venga offerta al pubblico come una copia della realtà. Benché l’arte nono possa essere scissa dalle influenze sociali attraverso le quali nasce, e nonostante la restituzione di questo spaccato sia spesso uno dei maggiori risultati che un artista possa conseguire, un’opera d’arte non può mai essere ridotta a questo. Non è un prodotto culturale altamente rappresentativo o di ordine superiore. Perfettamente integrato e funzionale allo sviluppo delle contaminazioni culturali, l’arte può essere considerata l’avamposto dal quale è concesso di rimettere in discussione ordini culturali di cui svela l’arbitrarietà e l’infondatezza.

La valenza antropologica dell’arte deve essere proprio coadiuvata dal curatore che non si limita a selezionare, ma agisce come mediatore tra artista e società, con lo scopo di analizzare e contestualizzare il lavoro degli artisti. L’opera risultante, di cui oggigiorno nessuno può discutere la plurivocità, non è completamente altro rispetto alle produzioni locali (tipicamente culturali, direi folcloristiche), ma neppure con esse si confonde fin quando si continua a pensare all’arte come motore di rinverdimento continuo dell’ordine semantico di una cultura (meglio, della sua apparente unicità), magari attraverso la propagazione del disordine.

Quando ogni tipo di discorso formalistico per l’individuazione e definizione della cultura e delle opere che in essa agiscono è superato, la reintroduzione di un sano ragionamento sull’eziogenesi e sugli effetti dell’opera nell’ambito culturale è di fondamentale importanza. Qui, al fianco del ruolo del curatore-antropologo, occorre accennare al concomitante ruolo politico dell’artista.  La concomitanza è dovuta al fatto che la relazione fra artista e curatore è considerata parte di un complesso di relazioni totalmente discese nella produzione culturale, senza alcuna superiorità o distacco aristocratico. In tale relazione, che sembrerebbe abbassare il profilo dell’arte rispetto a teorie dominanti fino a pochi decenni fa (fino all’avvento dello strutturalismo in arte), in realtà è l’unico modo per restituirle l’antica funzione politica: la possibilità di sortire effetti nella gestione della cosa pubblica, senza estetizzazioni ideali, ma attraverso l’analisi e la rappresentazione delle criticità (tutt’altro che un semplice specchio della realtà; bensì uno strumento di azione). Il modello di azione politica può essere attinto diretta mente all’antichità ellenica. Non solo perché Aristotele entrava in antitesi con la visione platonica dell’arte come mera riproduzione del reale mettendo in evidenza l’azione catartica che un’opera poteva sortire sul suo pubblico.

Al di là della nota diatriba, i due filosofi condividevano un assunto di base che è è proprio il quid che andrebbe oggi recuperato prima di parlare di arte pubblica. Benché Aristotele e Platone avessero opinioni opposte sull’arte, la base delle loro argomentazioni era una a base condivisa e strettamente legata alla questione dell’educazione: quindi una base sociale e dai risvolti eminentemente politici. Nessuno dei due era interessato, come molti vanagloriosi che oggi si accontentano di aver realizzato opere in uno spazio pubblico o coinvolgendo il pubblico, all’arte in sé e per sé. Entrambi, piuttosto, non perdevano di vista gli effetti che la pratica artistica poteva sortire sull’artista e sul suo pubblico.

Se Birnbaum, di fronte al pericolo di livellamento delle specificità culturali si auspica che l’arte possa mantenere e difendere il suo statuto di “forza antagonista a tale appiattimento”, io mi auguro che essa possa configurarsi sempre di più come motore di differenziazione culturale, una vivacità irrispettosa dei limiti e delle specificità dettate da inesistenti (o innecessari) confini culturali.

È in quest’ottica che 20eventi mette a confronto artisti e soluzioni già meticcie, lavora in un ottica che non favorisce solo lo scambio e la contaminazione culturale sincronica, ma anche lo sguardo lungimirante sulla sedimentazione e gli effetti a lungo termine che tale confronto porterà con sé negli anni. Il territorio della Sabina, sul quale gli artisti sono invitati a lavorare, non è quell’insieme di tratti caratteristici ed immobili da perseverare, ma una congerie di potenzialità che mutano con il tempo, anche con l’interventi stesso di 20eventi. D’altra parte gli artisti invitati non vengono chiamati a rappresentare la nazione di provenienza, né l’identità  dell’accademia coinvolta, ma il modo particolare in cui tutti questi elementi formano in lui una particolare congiunzione culturale, nel segno della Sabina.

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