Il Buono, il Brutto e Me

Da molto non scrivo un post; questo non è molto grave.

In generale da molto non faccio qualcosa di bello – probabilmente nemmeno qualcosa di buono; questo è già un pochino più grave.

Non fraintendetemi: non che io sia persuaso di aver cosparso il mondo di bellezza fino all’anno scorso; né di averlo redento con la mia bontà. La questione è miseramente autopercettiva. Se fino a qualche tempo fa venivo occasionalmente avvolto da barlumi estetici o mosso da spinte morali, ora mi porto avanti macchinalmente eseguendo quello che devo. Eppure ero partito con lidea di voler fabbricare qualcosa da poter sognare (magari insieme).

Sarà che anche io sono giunto nel mezzo del cammino della mia vita e, a questo punto (al contrario di Altri), la mia fiamma creativa tende a spegnersi.

Quando dico “Altri” non alludo a Dante, in questo caso, ma Thom Yorke, la cui ultima opera mi ha reso consapevole della gravità della mia arsura. L’ultimo brano dei Radiohead, Daydreaming, offre un bagno di suoni provenienti da una molteplicità di fonti (acustiche e spirituali). La conclusione del testo è costituita dalla ripetizione distorta di una frase riprodotta al contrario: “Half of my life” e suggerisce un’immagine del calzante invecchiamento come ritorno e quasi come metempsicosi, piuttosto che come decadimento.

Nell’incapacità di produrre del bello mi limito a renderlo magari piú accessibile fornendo qui sotto una mia traduzione del testo ed un link al surreale (e dierei anche surrealistico) video che rende onore al brano.

 

Dreamers: they never learn!

Beyond the point of no return.

And it’s too late, the damage is done.

This goes beyond me, beyond you.

The white room by a window where the sun comes through.

We are ‒ just happy to serve ‒ You

.efil ym fo flaH

Sognatori: non impareranno mai!

Oltre il punto di non ritorno.

Ed è troppo tardi, il danno è fatto.

Questo va al di là da me, al di là da te.

La camera bianca da una finestra attraversata dal sole.

Siamo ‒ semplicemente felici di servire ‒ Te.

.ativ aim alled ateM

Amare è come rompere

Si è soliti catalogare sia il verbo amare sia il verbo rompere nella categoria grammaticale dei verbi transitivi. Essi descrivono infatti a prima vista un’azione che passa  dal soggetto che la compie all’oggetto che la riceve o subisce. Si dice spesso di amare questo, di rompere quello. Oppure “io a questa la amo”, “io a quello lo rompo”. “Questo e quello”, seppur in diverse accezioni, sono i complementi, ammessi appunto solo dai verbi transitvi.

Il cosiddetto uomo della strada invece sa (“cosa sa? cosa sa?”) per esperienza che il verbo amare è un verbo transitorio, che al massimo ammette complimenti (complimenti a volte anche troppo diretti) su questo o su quell’aspetto fisico dell’oggetto amato.

Io credo invece che il verbo amare possa essere considerato anche come un verbo intransitivo. Un verbo che non ammette complementi, né necessita di complimenti. L’azione dell’amare in fin dei conti non passa: né passa dal soggetto, né passa all’oggetto, e nemmeno passa col tempo. Proprio non passa, non c’è niente da fare (vedi “il freno a mano”).

C’è quindi da considerare quantomeno una malleabilità del verbo, che può essere usato sia come un transitivo che come un intransitivo. Anche in questo il verbo amare si comporta come il verbo rompere:

Emanuele ama [FemaleName] vs. Emanuele ama!

Emanuele rompe una matita vs. Emanuele rompe!

Dicono che l’azione di un verbo intransitivo si esaurisca nel soggetto che la compie; più vero mi sembra che l’amare quanto il rompere si compiano nel soggetto che si esaurisce. Fatto sta che uno ama – non tanto solo se stesso (sarebbe riflessivo, narcisistico) – ma in se stesso e senza fine.

In Emanuele ci si rompe – In Emanuele ci si ama.

Ci si-amo.

Torniamo alla collaborazione Lucio/Pasquale

Però il rinoceronte
Album C.S.A.R. 1992
Battisti-Panella

Se non si cuoce a fuoco lento rimane cruda dentro.
Al dunque, quando può, le piace sentirsi al centro dei carciofi tenerelli.
Cosa sa? Cosa sa? Che gli animali sono esseri scorrevoli.
Però il rinocenronte ha il freno a mano.
L’amore è un gesto pazzo come rompere una noce con il mento sopra al cuore.

E si dovrebbe vivere lontani per essere creduti se si dice:
“Qui è nato un disinganno mai allevato, e grosso come un bue, mangiando poco.”
E si dovrebbe vivere lontani e dire: “Ho visto qual’è il colmo di me stessa.”
Sfilandomi un maglione sulla testa – per ora s’interessa all’infusione che dona brillantezza ai suoi capelli, e la parola chiave è “rosmarino”.
Il gusto si fa estivo a mezze maniche, esaminando la Venere di Milo.
I riti, i riti ma che riti d’Egitto?! Tutto è fidanzamento!

La colazione in tazza. Il pranzo, poi la cena e gli intermezzi.
Basta non le si dica “indovina chi sono?” e “non te lo aspettavi”, ecco, cose così, tra genti e tristi cose di burro in forma di conchiglie.
“Sono io quella ragazza” dice, puntando il dito come viene viene.
In uno sprazzo acrilico a colori mimetici soltanto di se stessi… e di un papero a sbruffo accidentale contro un mazzo, una messe di cielo, o il rosso mormorio di un acquitrino.
“Sono io quella ragazza”, infatti è lei!
Per lei un sovrano avrebbe rinunciato a nascere.

Un cammello si è lanciato in una cruna d’ago smascherando l’acrobata di sabbia in sè sopito.

“Sono io quella ragazza” dice,
il giorno prima come il giorno dopo.
E il giorno in mezzo me lo metto al dito, così sarà un anello e non un peso.
E per lei qualche atleta contenzioso si è battuto smantellato da solo, crollando coi talenti e i gusti intatti.
“Sono io quella ragazza”, infatti è lei!

Farò il possibile

L’onnipotenza è quel contributo che l’uomo trasferisce sul conto di dio pur di non investire la somma in questione su se stesso, nel timore di non avere liquidità sufficiente per saldare anche solo gli interessi di un simile investimento.

Questo non impedisce che l’onnipotenza, anche se riferita alla divinità, venga solitamente concepita dall’uomo in relazione alla modalità verbale della sua applicazione (applicabilità).

Il significato di „onnipotente“ si lascia quindi descrivere dalla sommatoria della congiunzione di „potere“ con tutti gli altri verbi.

Onnipotente = „colui che“:

„può vedere tutto“,

„può sapere tutto“,

„può immaginare tutto“,

et cetera.

Ma, allo stesso tempo, anche „colui che“:

„può procrastinare tutto“,

„può abbandonare tutto“,

„può disfare tutto“,

et cetera.

 

Al di lá delle sue modalizzazioni, il verbo “potere” è anche espressione di una libera volontà, di una generica volontà di x, che prescinde dalla determinazione di x. Al contrario del potere come verbo modale, il potere in senso assoluto lascia intravedere una libertà di azione che non dipende in alcun modo da quello che si sceglierebbe di fare.

Non esiste solo la dialettca del poter-fare e poter-disfare (che comuqne dipende da quello che si può, ovvero dal Possibile).

La categoria dell’onnipotenza include anche, almeno teoricamente, la dialettica del potere e del non-potere, nella più totale indipendenza rispetto a quello che pur si sarebbe potuto; un Impossibile che all’uomo non è nemmeno dato di immaginare (nè tantomeno di dire).

 

Io dico in italiano io posso (ich kann) nel senso che ho le capacità per fare qualcosa.

Ma dico anche io posso (ich darf) nel senso che ho il diritto e la facoltà di fare qualcosa.

 

Ci sono cose che posso (kann) ma non posso (darf).

Es gibt Dinge, die ich kann, aber nicht darf.

 

Ci sono cose che posso (darf) ma non posso (kann).

Es gibt Dinge, die ich darf, aber nicht kann.

 

Dato che il Dürfen primeggia sul Können, l’onnipotente dovrebbe essere colui che può (darf) tutto, piuttosto che colui che tutto può (kann).

 

Io, che non sono onnipotente, sono costretto a muovermi nell’ambito del Dürfen (ciò che si hà la facoltà di fare), e declinare l’idea di onnipotenza nella pratica del possibile.

Io, se fossi onnipotente, non avrei la catena del Dürfen e la mia onnipotenza potrebbe anche manifestarsi nel non fare. Un non-fare, però, che non è inattività, ma solo una traccia del fare l’impossibile, che a me non è nemmeno dato di immaginare.

 

Si arriva ad una formulazione apparentemente opposta a quella iniziale: onnipotente è colui che non non ha nulla da (dover) fare e, pur potendo fare tutto (anche l’impossibile, per me inimmaginabile), potrebbe anche non farlo.

 

Il non avere nulla da dover fare non significa non aver nulla da fare, né tantomeno non dover fare nulla.

Il non aver nulla da fare è un potere imprigionato nei limiti del possibile.

Il non dovere far nulla, imprigiona nei limiti del Dürfen.

 

L’onnipotente non dovrebbe conoscere nè il primo nè il secondo limite.

In questo senso mi sembrerebbe più appropriato appellare Dio il Nullafacente.

 

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A bene vedere, tuttavia, non occorre tirare in ballo dio. Anche questo bicchiere potrebbe essere onnipotente, ma semplicemente non manifestare la propria onnipotenza a me.

Forse anche io sono onnipotente, ma nella vita di tutti i giorni mi limito a fare il possibile.

 

 

 

 

 

Le cose che cadono – Part 2: “In fondo in fondo”

Hai presente quando ti cade qualcosa dalle mani? Ecco, mentre stava cadendo non l’avevi presente.

La cosa appare essere accaduta come animata da volontà propria. Questo ci libera dalla responsabilità di aver fatto cadere, o di non aver impedito che accadesse.

Il lasciar cadere è una (comoda) non-azione che torna utile nello smorzare la colpa del nostro negligente, complice lassismo. Questo lassismo (termine che non a caso ha molti risvolti etici) è parzialmente giustificato come meccanismo di difesa contro l’impossibilità di essere costantemente desti, ma degenera quando viene automatizzato ed assunto a regola di vita.

Quando questo lassismo si fa strada nell’algoritmo delle nostre azioni quotidiane la nostra percezione degli accadimenti si riduce a due fotogrammi: nel primo si ha la cosa in mano; nel secondo i frantumi della cosa giacciono al suolo. Solo dopo aver percepito il fracasso dell’accaduto si confrontano gli unici due fotogrammi conservati in memoria e ci si risveglia dal torpore. A questo punto ci si accorge che si sarebbe potuto intervenire. 

Perché lasciamo che le cose ci ac-cadano pur sapendo che con un semplice gesto avremmo potuto determinare un altro corso agli eventi? Perché non facciamo in modo, per quanto possibile, che le cose, una volta scivolateci, non continuino a cadere come se il loro destino fosse ormai segnato in maniera inalterabile?

Una volta allungato il braccio ed afferrata la cosa, nulla ci impedisce, eventualmente, anche di decidere di schiantarla in terra!

Questo invito a non lasciar cadere non deve essere inteso come una sorta di accanimento esistenzaialistico, ma come una espressione di libertá. LIbertá condizionata, a ben vedere. Ma pur sempre libertá. E soprattutto a ben vedre. Cioè non illusoria. Non parlo della libertá sconfinata del romanticismo, ma di una ben piú angusta, ma quantomeno possibile: a portata di mano.

Abbiamo un punto di partenza certo: la stanza di cui parlavo nella prima parte di questo scritto.

La stanza è fatta di cose essenzialmente facili da descrivere e da esprimere. Per quanto le circostanze iniziali non dipendano da noi, una volta entrati nella nostra nuova stanza le cose e la loro disposizione è nelle nostre mani. A nostra disposizione. Anche se non sappiamo (non sapremo mai) se queste cose e la loro sistemazione siano davvero (più) degne di altre cose o di altre possibili sistemazioni, queste cose e questa sistemazione (insomma, questa circostanza) sono degne di essere salvaguardate (e, attenzione, non dico “conservate”).

Salvaguardare, osservare con attenzione, valutare e soppesare con lo sguardo. Con questa intima celebrazione si fa un primo passo verso una libera determinazione dell’arredamento della propria vita. Qualcosa che ci è dato, la vita, indipendentemente da noi, e rispetto alla quale ci è essenzalmente negata ogni tipo di libertà. Ciononostante, in questo campo del necessario, entro i limiti delle nostre attuali possibilità, attraverso la salvaguardia delle cose che abbiamo per le mani e sotto il nostro sguardo, possiamo instaurare un nuovo ordine e magari anche estendere le nostre possibilità di autodeterminazione: insomma, dare uno stile personale alla nostra nuova stanza.

Il polo opposto dell’individuale arredamento della propria camera è la casa, quella che Battiato dice “abitarci e renderci impotenti”. La casa non è la stanza della stanza, ma un’antità a cui si dà un valore ontologico diverso. Invece è solo la stanza della stanza, come noi siamo stanze di noi stessi.

Quello che oggi, se ci svincoliamo dall’inerte osservazione delle cose che cadono, salvaguardiamo diventa oggetto di design nell’ambito di una particolare accezione del termine “arredamento di interni”.

Lo so, questo non toglie il fatto che la cosa in sé non cessi di essere priva di valore. Per questo è inutile domandarsi se valga o meno la pena di salvaguardare le cose nella nostra stanza: esse non dipendono da noi e, come altre potenziali cose, non hanno valore in sé. Non la cosa in sé deve spingerci ad effettuare il movimento di salvaguardia, di recupero e di riordino. Solo il nostro gesto, il nostro salvaguardare, recuperare, riordinare, insomma, la nostra presa di iniziativa dà valore alla cosa non-ac-caduta e ricollocato nella stanza a nostro piacimento.

Oggi cade la neve. Che possiamo farci se non immedesimarci-si?

In fondo in fondo ognuno ha il proprio personalissimo modo di essere uguale a tutti gli altri.

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Innamoramento senz’assenso

Questo post è dedicato a te, che sei capitato su questo scritto digitando su Google “come farsi una pippa”, “cosa significa farsi una sega?” o simili chiavi di ricerca.

Maybe not from the sources you have poured yours.

Mi dispiace: qui non troverai informazioni tecniche sull’argomento “masturbazione”: né spiegazioni anatomiche, né pratici suggerimenti sulle relative modalità d’uso. Nella materia “Teorie e tecniche dell’onanismo” ci saranno on-line enciclopedie intere che potrai consultare subito dopo, ne sono certo. Una volta appresi i primi rudimenti ci farai presto la mano.

Forse, come spero, potrai comunque trovare qui qualcosa di tuo interesse.

Maybe not from the directions you are staring at.

Quanto avevo più o meno la tua età io non avevo Google a cui porre certe domande e nemmeno Yahoo che potesse darmi delle Answers. Ma in classe l’argomento riscuoteva un crescente successo e l’indiscreto interessamento dei miei compagni si faceva sempre più pressante. Non potevo più svincolarmi. A domande non molto discrete del tipo: “Ma tu, ogni quanto te le fai le pippe?” non bastavano più risposte generiche del tipo “Ogni tanto… un paio di volte al giorno”. Occorreva che io venissi esattamente a conoscenza di ciò attorno al quale ero chiamato ad esprimemi. Come potrai immaginare la questione arrecò un certo imbarazzo (sia a me, sia – credo – a mio padre).

A te questa pena è risparmiata. Abbi quindi almeno la pazienza di continuare a leggere quello che ti sto scrivendo.

Trust your head around it’s all around you.

Ottenuta l’informazione richiesta – te lo anticipo – ne rimasi molto deluso. meglio che tu non abbia a riguardo aspettative troppo alte.

Dovetti pensare: “Beh, tutto qui? Allora lo faccio già da tempo!”. In realtà questa innocente saggezza durò ben poco e quello che, in risposta a naturali stimoli, già facevo da tempo, si trasformò. Ma la trasformazione non era una di quelle evidenti. All’apparenza continuai semplicemente a fare quello che già facevo (magari con maggiore frequenza).

La questione cruciale della trasformazione – quello che veramente mi preme di dirti – sta nel fatto che con essa divenne una pratica consapevole; non più, quindi, effettuata in modo spontaneo, ma ricercata. La stima effettuata prima di conoscere il significato della parola si rivelò presto inadeguata. Prima del tempo delle seghe c’era un tempo in cui ci si toccava con piacere, senza vole raggiungere l’orgasmo. Anzi! Ricordo bene che poco prima della fuoriuscita del liquido seminale tendevo a fermarmi per via di quello che avvertivo come un a specie di leggero dolore. Ma era un altro tempo, in cui non distinguevo bene il dolore e soprattutto non ricercavo primariamente il piacere, perchè tutto il mio mondo ne era colmo.

All is full of love, all around you.

All – (was/will be) – full – of – love

Se vuoi, puoi continuare a leggere ascoltando questo pezzo.

L’eiaculazione raggiunta al fine (e come fine) di una sega (la boum) non ha più niente a che vedere con “la prima goccia bianca”. Una volta avvenuta la concettualizzazione e la conseguente socializzazione della masturbazione avviene un passaggio difficile da cogliere ma fondamentale.

Nel momento in cui ti fai una pippa sapendo (credendo di sapere) quello che stai facendo, lo fai perché e per come ti è stato detto di fare; lo fai aiutandoti con il ricordo della scollatura della maestra o delle gambe della bambina a cui hai alzato la gonna. La fantasia distrae il tuo piacere e lo distoglie dal suo originario crogiolo pulsionale.
Alla masturbazione è quindi legata una insoddifazione che non ha proprio nulla a che vedere con la mancata appagazione sessuale. L’insoddisfazione legata alla masturbazione (sia come motivo, sia come conseguenza) discende dal narcisismo che il nostro ego acquisisce con l’età. Per questo credo che quel narcisismo andrebbe abdicato in favore di un reinnamoramento, ma – bada bene – non di un reinnamoramento di se stesso; bensì di un innamoramento senz’assenso.

Per spiegarti meglio cosa intendo con “innamoramento senz’assenso” non ti parlerò di Freud, che comunque ti consiglio di leggere, ma farò riferimento a due grandi che hanno scritto prima di me: Chaplin e Battiato.

Per farla semplice: Chaplin rivendicava un reinnamoranto di sè stessi, un innamoramento con assenso, un dire di sì al proprio ego; Battiato si riferisce ad un innamoramento senza assenso, ma lo fa molto più poeticamente di me, contestualizzando “la prima goccia bianca” fra il Tigri e l’Eufrate.

Ecco come descrive Chaplin l’innamoramento con assenso. Il testo integrale della poesia lo trovi al seguente link, se vuoi.

As I began to love myself I freed myself of anything that is no good for
my health – food, people, things, situations, and everything that drew
me down and away from myself. At first I called this attitude
a healthy egoism. Today I know it is “LOVE OF ONESELF”.

battiato

Battiato, in un certo qual modo, ne parla in “Mesopotamia” e descrive questa fase come un “innamoramento senza senso”.

La valle tra i due fiumi della Mesopotamia.

Ora mi sento in dovere di dare una conclusione a quello che ho cercato di scrivere. Sono proprio stato fuorviato dal metodo scientifico!

Riassumendo: quando iniziamo a “masturbarci” poniamo fine a quel rapporto immediato che avevamo con il corpo che eravamo. Alla “prima goccia bianca viene assegnato il nome di “sborra” (o, più tardi, di sperma) e facciamo nascere in noi una irrevocabile insoddisfazione ovvero una incapacità di essere soddifatti di quello che siamo. Alla radice c’è una modificazione radicale, vale a dire un passaggio da una innominabile fase preidentitaria ad una fase della comprensione di noi stessi come persone aventi un corpo.

Dopo essermi concepito come avente un corpo, allora dó adito alla mia insoddisfazione, in quanto vedo quello che ho, vedo quello che hanno gli altri. Gli altri, nella mia immaginazione, non sono essenti ma a loro volta aventi dei corpi, che anche io potrei avere, e che desidero. Dopo aver irrevocabimente scambiato quello che siamo per quello che abbiamo, tendiamo a desiderare di avere piú di quello che abbiamo.

Anche prima del farsi una pippa ci si toccava in modo similie, da un punto di vista puramente meccanico. Ma psicologicamente era tutta un’altra dimensione. Questa dimensione viene descritta da Battiato come un'”innamoramento senza senso”. Qui Battiato si riferisce ad una fase della vita di ogni essere umano che precede la concettualizzazione imposta dalla civiltà (simboleggiata in tutto il suo splendore, ma anche nel suo derivante squallore, dalla Mesopotamia)Oltre ad essere un innamoramento senza senso-significagto, esso è anche un innamoramento senza senso-direzione, ovvero antecedente il direzionamento della nostra fantasia sui corpi che noi stessi sembriamo avere e che gli altri hanno. Prima della pippa non c`è alcun autoerotismo (cioè erotismo diretto verso se stessi), ma semplicemente un amore senza(s)senso.

Lo spavento della prima goccia bianca non nasce da quella “masturbazione” di cui tu andavi cercando. Mi dispiace di averti tratto in inganno con i tag. Ma l’ho fatto a fin di bene. Spero non ti dispiaccia.

Se vuoi, ascolta questo miracolo di canzone (anche musicalmente, da cd sarebbe meglio).

Lo sai che più si invecchia
più affiorano ricordi lontanissimi
come se fosse ieri
mi vedo a volte in braccio a mia madre
e sento ancora i teneri commenti di mio padre
i pranzi, le domeniche dai nonni
le voglie e le esplosioni irrazionali
i primi passi, gioie e dispiaceri.
La prima goccia bianca che spavento
e che piacere strano
e un innamoramento senza senso
per legge naturale a quell’età.
mesopotamia

Ps. Quando hai tempo divertiti a mettere a confronto questa versione con quella cantata (e parzialmente riscritta da Morandi) e dimmi che ne pensi.

Ps. La foto-copertina (titled: “Au(gen)garten”) l’ho scattata in un pomeriggio del lontanissimo 6 gennaio 2014 in un parco, il primo vero parco pubblico di Vienna, l’Augarten.

Qui (su Panoramio) ho caricato un’altra immagine del parco, più chiara in riferimento al luogo e al tempo, ma non all’impressione.

Battiato  Mesopotamia Innamoramento Goccia Bianca

Le cose che cadono – Part 1: “Mesieri”

The so called Kalendae

Vienna, 03.11.2013

Ore dieci in punto

Le circostanze mutano. Le stanze pure.

Quella nella quale mi rifugio attualmente si trova a Vienna, ed è talmente piccola che a guardarla da fuori non sembrerebbe mai poter essere in grado di contenere una persona; figuriamoci un uomo con tutti e trenta i suoi anni.

Col mutare delle stanze che ti circondano, sorgono anche nuove necessità espressive; già, perché esprimendosi si dovrebbe cercare di far chiarezza attorno alla nuova situazione anziché limitarsi a trovare nella nuova situazione gli stessi attributi e le stesse fattezze che caratterizzavano la situazione precedente. Le precedenti modalità espressive non possono quindi restare totalmente valide e riutilizzate integralmente per descrivere la stanza che cambia; e per descrivere, con essa, la stanza della stanza (che chiamiamo mondo), e la stanza della stanza della stanza (che chiamiamo universo, e la stanza della stanza della stanza (che non chiamiamo proprio – e che probabilmente non cambia poi tanto spesso quanto la “mia” stanza).

È facile notare le differenze fra due stanze appena cambiate; meno facile, ma comunque accessibile a chiunque voglia osservare, afferrare i mutamenti che avvengono nella stanza della stanza. Impossibile percepire (e forse concepire) un mutamento della stanza della stanza della stanza. Alcuni Hanno, per questo motivo, scambiato la nostra impossibilitá di percepire/concepire quest’ultimo tipo di mutamento con la necessitá che questo mutamento non possa avere luogo.

Ma i mutamenti di stanza della stanza avvengono sotto gli occhi di tutti. E tutti dovrebbero adeguarsi. Ad esempio, la percezione e l’utilizzo delle unità di misura temporali sono  cambiate, e questo ha indotto o sta generando nuovi bisogni, e quindi nuove esigenze espressive, alle quali, tuttavia, ancora mancano le corrispettive, aggiornate modalità espressive.

Ieri, ad esempio, cercavo nella mia mente una parola per dire in modo corrispondente al mio pensiero qualcosa come: “sono arrivato a Vienna il mese scorso”; manca una parola che, similmente alla parola “ieri” nei confronti del concetto “il giorno scorso”, racchiuda il concetto di “il mese scorso” nel corpo di un unica parola. Non è la stessa cosa dire “sto qui da un mese”, “sono arrivato un mese fa” e “quello che avrei in mente di dire ma non posso perché mi manca la parola adatta”.

La parola “ieri” condensa il passare delle scorse (circa) 24 ore in una sola parola, dando a quelle 24 ore una puntualità temporale, e minimizzando quella che ne è stata la sua durata. Nella percezione del tempo che quella parola fornisce, si comunica che l’arco di tempo in questione non è così rilevante per il suo essere stato passante (durata), ma per il suo essere già stato passato, vale a dire per la sua collocazione in un arco di tempo più esteso, rispetto al quale solamente quel punto assume un significato. Io ho l’impressione che la stanza della stanza (il cosiddetto mondo) stia cambiando i suoi parametri temporali nel senso che il mese dovrebbe poter essere espresso, anche nella sua forma trapassata, come unità puntuale.

Poniamo l’esistenza di una parola tipo “mesieri”. Allora potrei dire “sono arrivato giusto mesieri,  adesso posso mettermi disfare i bagagli”. Talmente tante sono le cose da “sbrigare”, che il piano temporale che ognuno di noi elabora nella propria gestione della vita diventa sempre più concentrato. Si tende a mettere in relazione stringhe temporali sempre più complesse;  questo rende poco pratico suddividere il calendario in giornate, tanto quanto sarebbe poco pratico misurare la distanza Vienna-Berlino in piedi, o misurarsi il pene in frazioni di anni-luce.

Dubito che un domani, a cospetto di questi mutamenti, moriremo ad etá stimabili in secoli anziché in anni. Potremmo comunque riservarci il diritto alla precisione, e calcolare le nostre vite in mesi. Una cosa è dire: “Hitler si tolse la vita all’età di 56 anni”. Altro si lascia intendere con “Hitler si suicidò nell’aprile del 1945, pochi giorni dopo il suo 672mo comlimese”!

io ora - Kopie (2)
Foto – Emanuele Sbardella: “Le dieci in punto, ovvero 21:58:48,3 periodico”

De fabula artis

This photo was taken on top of Mount Subasio, over the assisian Eremo delle Carceri, at the end of a week spent doing something with someone.

Matter what? Possibly yes.

Will it make history (historia)? I do not know.

Certainly it will make tale (fabula): this one. This present small tale, that I am also writing in order to thank each “someone” who took part in the something, making it worthy of being told.

Thank you Amelia, Danke Anett, Danke Anselm, Grassie Beatrice, Danke Christoph, Thank you Erica, Danke Erik, Danke Gerhard, Thank you Jessica, Danke Katharine, Grazie Livia, Danke Martin, Dziękuję Mateusz, Grazie & Danke Michaela, Danke Susanne, Danke Vera, veramente grazie a tutti.

Sure, I know that is not formally correct to start a story from the end and even from the “thanks to” without even having begun to tell. But many outstanding tales include from their beginning some kind of secret allusion to the conclusion. Just want to tell in the opposite way. Even if at the beginn of that week I was not already telling, but just living, I actually belive to have experienceda similar kind of allusion to what I’ve seen on the Monte Subasio and then, on the same evening, I’ve tried to share during the final discussion. It is one of those things one simplistic calls “signs of destiny”, as if we’re living lifes written by someone else!

Just arrived in Assisi I headed, suitcase in hand, to a fresco in the Lower Basilica of San Francesco: a piece that I extensive studied in the books and I was anxious to see/watch for myself.

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While I sneak through the crowd of believers-vacationers, a priest commented on a passage from the Psalms. In fact, I was only interested in the fresco by Simone Martini in the Chapel of St. Martin, but I could not even prevent me from understanding his words, which were broadcasted in surround sound throughout the House of God.

I went intentionally on-site well in advance: to prepare and test my theme a few hours before the arrival of those still unknown companions, with whom, in the following days, I would have had the honor and the burden of engaging in a speech. For that occasion a presentation should  stand as the most scientific and detailed as possible.

I had not come to terms with the simple fact that I was not going into a museum and the preaching appeared, at first glance, a kind of unexpected hurdle to my intention to recollect myself in front of the ‘”work of art” in his pureness. Obviously I had to surrender to my lack of foresight and accept – not without some discomfort – to reconcile these two dimensions.

According to the priest, we must learn to number our days. In fact, as he claims, it does not matter exactly knowing until what age we will live. Our remaining days are anyway numbered, limited; in any case not many. In order to have wisely his own mortal and fleeting life – I still report almost literally from his homily -, we must learn to count days and then give to each single day his proper value. I listened to this Interpretation with the right ear, while the left eye was trying to observe Martini frescoing Martino.

So, as a sector of my brain tried to focus on the expert and ambiguous use of gold in the cycle of frescoes; another, equally active sector wondered simultaneously if perhaps, more than learning to count (contare, zählen) the days, we should possibly learn how to do something more meaningful, perhaps to recount/tell (raccontare, erzählen) them. More than a simple counts, is a tale that can give meaning to the lived days or to those which are planned to live. Although the counting ensures an abstraction and a reassuring distancing, the telling/recounting presupposes a participation (certainly relative and subjective), that makes and gives sense (senso, direzione) to the days. Regardless of the number of days, the fact of giving them a sense through a tale increases its quality. Then, by combining the various day-tales to each other, can eventually result a story.

But then: what about the history of art? What about that history which, with the other part of the brain, I’m trying to analyze? Is this a simple sum of individual tales? A conglomeration of viewpoints artificially held together by a huge immaterial bookbinding? If one observes the remuneration of a soldier, one can not avoid to refere that counting (zählen) to a paying (bezahlen), and then to a recounting (erzählen).

Le monete di San Simone Martini

What and how is determined whom and how much should be paid? Who is/treats? (Chi tratta? Di chi si tratta?) The mercenary soldier or the hired artist? Both have to work the best they can, for an agreed monetary compensation.

What and how it is determined who and how something should be told? What kind of tale is the appropriate form for  a certain kind of experience?

In short: what is the thing that we did / tried to do / wanted to do in our week in Assisi?

I suppose that each of the participants has drawn upon personal conclusions, mutable, presumably partly conflicting and fundamentally incommunicable. Still was built a common base, a shared sense, worthy of being told, in infinite possible ways. This experience of community is there. I see it. I saw it when, on the last day, alone but not alone, I went to the top of Mount Subasio, after a collective excursion Eremo delle Carceri. Others may have seen or imagined it elsewhere, perhaps even in a church, in a completely different form. Yet it is the same thing that I saw and I’m telling about.

Without illusions nor cheating.

Il rifiuto di un invito

Ieri sono stato invidiato a cena.

(Ah, se solo il mio ospite avesse saputo quanto poco io mi ritenga degno del suo invito!)

In un primo momento, a dire il vero, non avevo nemmeno capito bene si trattasse di un invito. Non che io sia cosí pretenzioso da necessitare un bigliettino scritto con stilografica e sigillato a cera… no, è che purtroppo ho una certa incapacitá nell’afferrare questo genere di trattative interpersonali (un po’ come quando qualche giorno fa, con scandaloso ritardo, mi era saltato in mente che quell’affabile ragazza non era necessariamente cosí interessata al volumetto di sulla Berliner Sezession del 1906 che avevo appena scovato, e che per me invece rappresentava la sola ed unica condizione di esistenza delle nostre “espressioni”). Fatto sta che anche nel caso dell’invito di ieri sera, avevo tardato un po’ nell’afferrare la sua vera natura; troppo tardi per potermi sottrarre a quel quel piatto di riso scotto, che pur gentilmente mi è stato offerto.

Il fatto è che, al di lá della mia inadeguata capacitá relazionale, inviti di questo genere proprio non si possano rifiutare! Se anche avessi arguito con largo anticipo, non avrei comunque avuto modo di sottrarmi. Se infatti uno, in questi casi, esprimesse con tutta la gentilezza possibile la propria disinteressata e magari anche ben motivabile volontá di non accettare, ebbene costui verrebbe proprio per questo ancora piú invitato di prima!

Ineluttabile o meno, resta per me la constatazione di un dato di fatto, che è poi anche quello che piú mi premeva di scrivere: io non avevo mai ritenuto di essere passibile di venire invitato da chicchessia. No davvero, non è per fare il Leopardi di turno. Non credo di essere particolarmente mediocre, ma nemmeno sufficientemente eccellente in una qualsivoglia disciplina, da poter essere fregiato di tale riconoscimento. Voglio dire: se non fossi me stesso, non avrei niente in particolare da invitare ad uno come me. Se non fossi me stesso… Ma precisamente per il fatto che invece il piú delle volte sono proprio me stesso, diciamo che mi sono abituato alla mia compagnia e, se non addirittura piacevole, la trovo quantomeno accettabile. Questa condizione di accettazione mi aveva sempre sinceramente impedito di credermi degno di simile invito. Semplicemente non mi ero mai posto la questione (che poi: perché mai invitarmi a cena quando di default mangio sempre con me stesso?).

Ecco, ora ora che il dado è stato tratto (e per dad intendo qui quello uasto per fare il brodo con cui è stato preparato suddetto riso) rimango solo, o meglio: con un me stesso un po’ rivalutato, a riflettere che probabilmente molte persone, in modo simile a me, convivono con se stesse tendendo a pensare di avere meno da essere invitate piuttosto che non da invitare. Se questa considerazione fosse anche solo statisticaemnte verificabile nella maggior parte degli esseri umani, se ne potrebbe ricavare uno di quei saggi pensierini che figurano sempre bene nei fogliettini allegati a cioccolatini dozzinali o in esergo a capitoli di tesi ancor piú scadenti:

Se proprio non puoi fare a meno di invidiare qualcuno, premurati almeno di non far scuocere il riso, cazzo!

Il mio consiglio per la serata.

Ps. Forse ogni tanto bisognerebbe concedersi davvero il lusso di invitarsi a cena!

Insomma teologica

Il più ragguardevole miracolo eseguito da Geovanni Paternostro, in arte (e anche in Natura) Dio, è stato quello di far sí che, nonostante tutte le incongruenze, gran parte dell´umanitá abbia creduto e si ostini a credere in lui… e prima di tutto nella nella sua esistenza.

Eh giá, perché una cosa è credere in qualcuno/cosa; altro il credere che tale qualcuno o questo qualcosa esista.

Prima di tutto, allora, uno dovrebbe credere che dio esista.

Non intendo qui affermare il contrario. Anzi, voglio proprio partire dal presupposto che Dio esista e che i miracoli  (incluso quello introdotto nelle prime righe) ne costituiscano – in qualche modo – la prova.

Effettivamente non posso negare che un certo numero di fenomeni, osservati dalla prospettiva di organismo pluricellulare dotato di limitate capacitá cognitive, risultino incomprensibili. Allora perché ostinarsi a credere che un domani la pubblicazione di un asettico articolo scientifico possa spiegare certi fenomeni meglio di quanto non possa fare un’apparizione mistica o un elucubrato compendio metafisico?

Ammettiamo, quindi, l’esistena di Dio.

Ammettiamo che i miracoli esprimano questo suo modo di Essere, senza volerne costituire la prova. Ammettiamolo, anche solo come provvisoria concessione da parte dell’intelletto. Voglio ammetterlo, per poter giungere alla domanda che mi sta veramente a cuore:

Cosa significherebbe credere in Dio?

Ecco, una volta effettuata questa concessione, l’atto di fiducia prende forma nella mia immaginazione e vedo che il credere in Dio significa credere che Egli non solo esista, ma esista esclusivamente per me. Significa confidare nel fatto che qualcuno rivolga le proprie attenzioni unicamente a questo insulso organismo pluricellulare sfuggito al suo fine biologico. Ecco, lo vedo come un amico pieno di dedizione, un amico che mi attende oltre il traguardo mentre corro una maratona. Credere equivale a sperare che questo Amico mi abbraccerá alla fine del percorso. Si, mi piace questa immagine di un dio che non si schifa del mio sudore. Voglio credere che Dio, ammessane l’esistenza, sarebbe pronto ad abbracciarmi, a prescindere dalla mie condizioni, da come io abbia corso. Non importa in quanto tempo, non importa quali subdole astuzie io abbia messo in pratica. Ho barato? Mi sono dopato? Ho trascurato impegni piú  importanti? Ho riversato odio su quello che mi ha superato? Non importa, il mio amico mi abbraccerá. Ho faticato; non ho dato il massimo; ho ottenuto un pessiom risultato, molto al di sotto le aspettative? Non importa, il mio amico mi abbraccerá lo stesso.

Questo è quello che voglio. Questo è quello che vorrei, se anche non dovessi riuscire a completare tutti i  quarantaduevirgolqualcosa km previsti. Se anche dovessi abbandonare prima, potrei contare sulla sua assoluzione.

Ma allora, credere in dio dipende strettamente dalla mia Volontá, o forse, meno filosoficamente, dal mio bisogno di un amico che abbia sincera comprensione di tutte le deficenze che caratterizzano la natura di ciascun essere umano (consapevole).

Un uomo inconsapevole non ha bisogno di credere in Dio. Inconsciamente assume di essere Onnipotente.

Nemmeno un uomo abbagliato dalla propria facoltá di conoscenza ha bisogno di credere. Consciamente confida nella propria (quantomeno potenziale) Onnipotenza.

Questo significa forse che il riconoscere i propri difetti, conduca alla necessitá di credere? Non credo.

Eppure mentre corro cerco di nascondere i miei difetti e forse corro proprio con la motivazione di nasconderli. Se anche so di non poter vincere; persino se presumo di non arrivare a completare il percorso, corro lo stesso. E ironicamente, forse buffamente, lo faccio con la vana intenzione di lasciarmi dietro le incertezze e le debolezze del mio essere. In sostanza corro ingannandomi circa il motivo della corsa. Confido in un traguardo che so di non poter raggiungere. Mi indigno di fronte al mio bisogno di credere, ma sorvolo su questo mio errore proprio elevandolo alla sua potenza.

In sostanza credere in Dio significa ricercare una prova che, al di lá e contro i dati di fatto, Egli esista. La sua inesistenza fisica (in Natura) non prova, ma determina la Sua inconfutabile esistenza negli uomini (in arte). Attraverso questa ad ognuno viene dato di poter correre.

Io corro, non perché io creda in me stesso e nelle mie capacitá, ma, al contrario, perché credo in Dio, perché delego a lui il compito di avere una fiducia incondizionata in me. Lascio che in Dio giunga a compimento la fiducia in me stesso che sulla Terra viene giornalmente impedita e contraddetta dai fatti.

– Tieni, ti concedo il mio credo. Ti faccio esistere e ripongo tutta la mia fede in Te. Ma ti prego, ti prego, non lasciarmi solo di fronte a me stesso. Io non credo in me e senza alcuna credenza, che senso avrebbe continuare a correre?

Ti prego, aspettami oltre il traguardo.

Plaine aux as

Bonjour Mesdames et Messieurs,

Je m’appelle Emile et je vais vous raconter l’histoire de la ville où je suis né le 2 Avril 1840: l’histoire de Paris.

Plus précisément je vais vous raconter l’histoire de comme Paris est devenu une cite pleine aux as, ou – ce qui est la même chose – pleine d’axes.

Quelles sont les mains qui ont construit de si nombreux axes?

  1. 2.       Haussmann et de Napoléon planifient les axes

À première vue, vous pourriez justement répondre en indiquant le célèbre duo: en toute honnêteté: pas une véritable « paire d’as ».

Vous savez déjà a qui est ce-que je fais allusion.

Premièrement au Baron Haussmann. Non, pas au Baronne As-Mann (et même pas au Baron Axe-Mann): Je me réfère à Georges Eugène Haussmann, oui: le Préfet du Département de la Seine.

Il n’est pas été un homme pauvre en initiative et a eu un certain talent d’organisation.

Pris en sandwich entre deux tendances (conserver l’âme de Paris et adapter la ville au monde de demain), il a bien choisi de manger le sandwich et de laisser affamer le peuple.

« Telle est le destin: le passé est dévoré par le présent […]. L’archeologie ne vas pas sans la philosophie […]. A Paris, oú le luxe evahisseur se trouve si mal à l’aise, dans ces roues étroites et sombres qui souffisaient à nos pères. »

(Fournier, Paris detruit)

  1. 3.       Empereur: la richesse et le paupérisme

Il a favorisé le développement économique et financier, ce qui a conduit à la désintégration sociale et à la désintégration du tissu urbain.

De cette manière, il a bouleversé et ‘boulevardisé’ Paris ; … et il l’a fait, comme on le dit, tout en passant à l’as[1] les droits des citoyens… comme il a été désigné par Napoléon.

Il n’est pas vraiment, donc, un as de l’architecture et n’est pas non plus très autonome. En grande partie, la marionnette d’un empereur inepte et qui souffre de complexe d’infériorité contre un oncle inculte et exalté.

Il est bien décrit, ce marionnettiste, par mon maître et ami Victor, qui appartient à cette même génération.

Je voudrais vous réciter le bref extrait d’un poème, qu’il a écrit en son honneur : en l’honneur de Napoléon, le petit:

« Il a pour lui l’argent, l’agio, la banque, la Bourse, le coffer-fort“

(Hugo, Napoleon le Petit)

Napoleon III semble être aussi  motivé par quelque sorte de esprit humanitaire.

Il a écrit en 1844 une brochure d’inspiration « saint-simonienne » qu’il avait rédigée pendant sa détention : Extinsion du Pauperisme.

Je vais le citer :

« Ainsi, proposer un moyen capable d’initier les masses à tous les bienfaits de la civilisation, c’est tarir les sources de l’ignorance, du vice, de la misère. Je crois donc pouvoir, sans trop de hardiesse, conserver à mon travail le titre d’Extinction du Paupérisme

(Louis Napoléon Bonaparte, Extinsion du Paupérisme)

Il voudrait donc (peut-être) résoudre le problème de la pauvreté. Mais la pauvreté de qui? Des classes ouvrières, on peut le lire… et à la fois, on peut aussi en douter.

Quoi qu’il en soit … le charme de l’argent  est plus fort et il n’a pas su maîtriser les changements de son époque face au développement industriel, à l’urbanisation et aux conséquences de l’exode rural… comme en témoigne le cas de Denise Baudu (Au Bonheur des Dames), dont la petite ville natale (Valognes) stagne et la pousse en 1864 à venir s’installer à Paris pour travailler dans le petit magasin de son oncle.

Elle prend rapidement conscience que les bouleversements économiques en cours conduiront à la mort des anciens petits commerces et que l’emploi n’existe que dans les grands magasins : l’une des innovations du Second Empire.

  1. 4.       Petites et Grandes magazines

Elle se fait embaucher au Bonheur des Dames, ehm… au  Au Bon Marché : le première grand magasin français, situé dans le 7e arrondissement de Paris, au 24 rue de Sèvres.

Le magasin Au Bon Marché fut fondé en 1838  comme simple boutique de mercerie par les frères Videau.

En 1852 s’associent Aristide et Marguerite Boucicaut, qui transforment le magasin: il va offrir un vaste assortiment de produits avec des prix fixés et indiqués sur une étiquette! L’accès aux biens est direct et comfotable (le principe du satisfait ou remboursé vien aussi inroduit): Il s’agit d’encourager l’achat, ou mieux: le diesire d’acheter. Et ils y sont reusssi!

«  Elle volait avec de l’argent plein la poche, elle volait pour voler, comme on aime pour aimer, sous le coup de fouet du désir, dans le détraquement de la névrose. »

(Zola, Au Bonheur des Dames)

Le Bon Marché, qui en 1852 emploie 12 personne pour un chiffre d’affaires de 500 000 francs, passe – pendant le cours des deux décennies impériales – à 1 788 employés  pour une chiffre d’affaires de 72 millions de francs !

L’espace intérieure du magasin, modifié architecturalement par l’utilisation de ferre et verre, va refléter celui-là tracé extérieurement par les boulevards. Ce qui est mis en scène dans cette nouvelle typologie de lieu urbain est le déploiement des axes de la ville, de la circulation des biens, qu’ici dedans sont exposées.

«  C’était la cathédrale du commerce moderne solide et légère, faite pour un peuple de clientes. […] Un monde poussait là, dans la vie sonore des hautes nefs métalliques. »

(Zola, Au Bonheur des Dames)

Grâce á son succès commercial le magasin vien engrandit en 1869 par l’architecte Louis-Charles Boileauet et par Gustave Eiffel en 1879.

« Un lundi, quatorze mars, le Bonheur des Dames inaugurait ses magasins neufs par la grande exposition des nouveautés d’été, qui devait durer trois jours. […]

Au centre, dans l’axe de la porte d’honneur, une large galerie allait de bout en bout, flanquée à droite et à gauche de deux galeries plus étroites, la galerie Monsigny et la galerie Michodière. On avait vitré les cours, transformées en halls; et des escaliers de fer s’élevaient du rez-de-chaussée, des ponts de fer étaient jetés d’un bout à l’autre, aux deux étages. L’architecte, par hasard intelligent, un jeune homme amoureux des temps nouveaux, ne s’était servi de la pierre que pour les sous- sols et les piles d’angle, puis avait monté toute l’ossature en fer, des colonnes supportant l’assemblage des poutres et des solives. Les voûtins des planchers, les cloisons des distributions intérieures, étaient en briques. Partout on avait gagné de l’espace, l’air et la lumière entraient librement, le public circulait à l’aise, sous le jet hardi des fermes à longue portée. »

(Zola, Au Bonheur des Dames)

Ici, dans cette cathédrale moderne, Denise découvre aussi la précarité de l’emploi et le monde cruel des petites vendeuses.

«  […] ces dames exhalèrent leur rancune. On se dévorait devant les comptoirs, la femme y mangeait la femme, dans une rivalité aiguë d’argent et de beauté. »

(Zola, Au Bonheur des Dames)

Argent et beauté. Peuvent-ils s’entendre?

En prenant l’exemple de Napoléon, il est difficile de tirer des conclusions.

Rappelons-nous le poème de Victor.

Qu’est-ce qu’il avait ? Il avait de l’as.

Qu’est-ce que il a fait? Rien – répondit Victor.

Mais quelque chose peut-être qu’il a aussi produit. De l’argent, d’autre argent ; as de l’as : moteur de cette société et carburant en même temps des relations actuelles économiques et humaines.

D’autres écrivains sont d’accord avec moi sur ce point, mais je ne traite pas l’argent comme beaucoup de mes collègues. La plupart d’entre eux  méprisent l’as tout court.

Je vois les choses différemment :

« l’argent est devenu pour beaucoup la dignité de la vie: il rend libre, est l’hygiène, la propreté, la santé, presque l’intelligence. […] Puis la force irrésistible de l’argent, un levier qui soulève le monde »

(Zola, Ébauche de L’Argent )

Je veux écrire sur l’argent sans l’attaquer et sans le défendre, mais en faisant la différence entre :

–          l’argent mérité, reçu en contrepartie d’un don de travail, d’énergie, de savoir, proportionné aux besoins de l’individu, bref : l’argent honnête.

–          et l’argent gagné avec de l’argent, dans ce jeu de hasard qu’on appelle la Bourse.

Le premier est conforme à la Déclaration universelle des droits de l’homme de 1789.

« Article XVII

La propriété étant un droit inviolable et sacré”

  1. 5.       La bourse ou la vie! La Bourse!

Le deuxième est une puissance fatale, «irrésistible», et sur-individuelle : «un levier qui soulève le monde».

C’est avec  cette vision globale et globalisante de l’argent qu’Aristide Saccard loue deux étages d’un hôtel dans Rue Vivienne, pas loin de Palais Brogniart (la Bourse), pour y installer sa société, destinée à financer les projets de mise en valeur du Moyen-Orient.

« La lettre du banquier russe de Constantinople, que Sigismond avait traduite, était une réponse favorable, attendue pour mettre à Paris l’affaire en branle; […] En sautant du lit, il venait de trouver enfin le titre de cette société, l’enseigne qu’il cherchait depuis longtemps. Les mots: la Banque universelle, avaient brusquement flambé devant lui, comme en caractères de feu, dans la chambre encore noire. ‘’La Banque universelle, ne cessa-t-il de répéter, tout en s’habillant, la Banque universelle, c’est simple, c’est grand, ça englobe tout, ça couvre le monde…. Oui, oui, excellent! la Banque universelle!’’ »

Saccard gagne une puissance boursière, qui totefois est tres fragile et l’oblige à acheter ses propres actions afin de gonfler son univers.

Articles de presse et toute une série d’intrigues son mise en scene pour attirer petits et moyens épargnants, auxquels il promet des gains faciles et rapides.

Son succès (virtuel), qui signifié la défaite de milliers d’autres hommes appartenant à toutes les classes sociales, a commencé juste le 2 Décembre, 1852.

Au landemain du coup d’État …

« Aristide Rougon s’abattit sur Paris, avec ce flair des oiseaux de proie qui sentent de loin les champs de bataille »

(Zola, La Curée)

Son frère a été nommé ministre par Napoléon le Petit et lui trouve une place à l’Hôtel de ville. Grâce à son embauche, il peut prendre part à la Curée et commencer ses spéculations relatives à la vente d’immeubles et de terrains voulue par le Préfet Haussmann, qui vont  être rachetés dix fois le prix qu’il les a payés.

« Il dépensait un argent fou; le ruissellement de sa caisse continuait, sans que les sources de ce fleuve d’or eussent été encore découvertes. »

(Zola, La Curée)

  1. 6.       L’or et la chaise

Oh oui, c’est comme ça, la vie ici à Paris. Un peu débauchée, pleine de contradictions mais aussi d’attractions : divisée entre « l’or et la chaise ».

L’or, comme celui des gens à la Saccard, et la chaise, le bien ultime que les travailleurs peuvent se permettre de dépenser.

Exclus de la société, ces derniers, sont rejetés à la périphérie de Paris. En vivant dans quartier comme celui de la Chapelle (quartier, qui n’était pas touché par le changement), ils ne peuvent que plonger dans l’alcoolisme. Ils ont perdu l’espoir et vont en masse dans des endroits comme l’Assommoir.

  1. 7.       L’Assommoir et Alchimist

Au milieu de ce café trône le fameux alambic, sorte de machine infernale dont le produit assomme ceux qui en boivent.

Quand Victor a lu mon livre sur la condition des ouvriers parisiens, il s’est indigné et m’a dit que je n’ai

« pas le droit de nudité sur la misère et le malheur. »

(Hugo, correspondance privée)

Mais, avec le recul, je n’ai pas décrit la nudité des travailleurs entassés dans l’Assommoir…

pas même celle de la bourgeoisie qui s’aventure le long des boulevards ;

mais celle de l’argent lui-même en matérialité séductrice ;

ou, peut-être, la nudité de l’empereur, qui l’utilise (l’argent) pour s’approprier de sa splendeur subtile et qui se montre tête laurée dans la monnaie dorée.

Donc eux, les pauvres travailleurs, ne sont pas coupables quand…

« ils buvaient là du propre argent, capable de flanquer toutes les mauvaises maladies! »

(Zola, L’Assommoir)

Je ne devrais pas être accusé de ne pas avoir rendu justice à leur honneur.

Je voulais simplement montrer l’autre côté de la médaille[2].

On dirait qu’avec Haussmann a eu lieu la tentative alchimique de transformer la ville en or…

« Deux mois avant la mort d’Angèle, il l’avait menée, un dimanche, aux buttes Montmartre. […] On était à l’automne ; la ville, sous le grand ciel pâle, s’alanguissait, d’un gris doux et tendre, piqué çà et là de verdures sombres, qui ressemblaient à de larges feuilles de nénuphars nageant sur un lac ; le soleil se couchait dans un nuage rouge, et, tandis que les fonds s’emplissaient d’une brume légère, une poussière d’or, une rosée d’or tombait sur la rive droite de la ville, du côté de la Madeleine et des Tuileries. C’était comme le coin enchanté d’une cité des Mille et une Nuits, aux arbres d’émeraude, aux toits de saphir, aux girouettes de rubis. Il vint un moment où le rayon qui glissait entre deux nuages fut si resplendissant, que les maisons semblèrent flamber et se fondre comme un lingot d’or dans un creuset.

– Oh ! vois, dit Saccard, avec un rire d’enfant, il pleut des pièces de vingt francs dans Paris ! […].

Ils restèrent encore quelques instants à la fenêtre, ravis de ce ruissellement de « pièces de vingt francs », qui finit par embraser Paris entier. »

(Zola, La Curée)

Slide

Zola on GoogleMaps

http://goo.gl/maps/xjxXl


[1] Faire passer qc à l’as (unter den Tisch fallen lassen ; Etwas nicht beachten, berücksichtigen)

[2] C’est un phénomène complexe, dont aussi les vrais coupables (comme Saccard) deviennent victimes mélancoliques.

Une nuit, je l’ai vu à Montmartre et dire à sa femme :

“- C’est la colonne Vendôme, n’est-ce pas, qui brille là-bas ?… Ici, plus à droite, voilà la Madeleine… Un beau quartier, où il y a beaucoup à faire… Ah ! cette fois, tout va brûler ! Vois-tu ?… On dirait que le quartier bout dans l’alambic de quelque chimiste. »

(Zola, La Curée)

[3] Les Rougon-Macquartr egroupe un ensemble de vingt romans écrits par Émile Zola entre 1871 et 1893. Il porte comme sous-titre Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire :

La Fortune des Rougon (1871)

La Curée (1872) [ >> http://www.gutenberg.org/files/17553/17553-h/17553-h.htm

Le Ventre de Paris (1873)  >> http://www.gutenberg.org/cache/epub/6470/pg6470.html

La Conquête de Plassans (1874)

La Faute de l’abbé Mouret (1875)

Son Excellence Eugène Rougon (1876)

L’Assommoir (1877) [ >> http://www.gutenberg.org/cache/epub/6497/pg6497.html

Une page d’amour (1878)

Nana (1880)

Pot-Bouille (1882)

Au Bonheur des Dames (1883)  >> http://www.gutenberg.org/cache/epub/16852/pg16852.html

La Joie de vivre (1884) Germinal (1885)

L’Œuvre (1886)

La Terre (1887)

Le Rêve (1888)

La Bête humaine (1890)

L’Argent (1891) >> http://www.gutenberg.org/files/17516/17516-h/17516-h.htm

La Débâcle (1892)

Le Docteur Pascal (1893)