Innamoramento senz’assenso

Questo post è dedicato a te, che sei capitato su questo scritto digitando su Google “come farsi una pippa”, “cosa significa farsi una sega?” o simili chiavi di ricerca.

Maybe not from the sources you have poured yours.

Mi dispiace: qui non troverai informazioni tecniche sull’argomento “masturbazione”: né spiegazioni anatomiche, né pratici suggerimenti sulle relative modalità d’uso. Nella materia “Teorie e tecniche dell’onanismo” ci saranno on-line enciclopedie intere che potrai consultare subito dopo, ne sono certo. Una volta appresi i primi rudimenti ci farai presto la mano.

Forse, come spero, potrai comunque trovare qui qualcosa di tuo interesse.

Maybe not from the directions you are staring at.

Quanto avevo più o meno la tua età io non avevo Google a cui porre certe domande e nemmeno Yahoo che potesse darmi delle Answers. Ma in classe l’argomento riscuoteva un crescente successo e l’indiscreto interessamento dei miei compagni si faceva sempre più pressante. Non potevo più svincolarmi. A domande non molto discrete del tipo: “Ma tu, ogni quanto te le fai le pippe?” non bastavano più risposte generiche del tipo “Ogni tanto… un paio di volte al giorno”. Occorreva che io venissi esattamente a conoscenza di ciò attorno al quale ero chiamato ad esprimemi. Come potrai immaginare la questione arrecò un certo imbarazzo (sia a me, sia – credo – a mio padre).

A te questa pena è risparmiata. Abbi quindi almeno la pazienza di continuare a leggere quello che ti sto scrivendo.

Trust your head around it’s all around you.

Ottenuta l’informazione richiesta – te lo anticipo – ne rimasi molto deluso. meglio che tu non abbia a riguardo aspettative troppo alte.

Dovetti pensare: “Beh, tutto qui? Allora lo faccio già da tempo!”. In realtà questa innocente saggezza durò ben poco e quello che, in risposta a naturali stimoli, già facevo da tempo, si trasformò. Ma la trasformazione non era una di quelle evidenti. All’apparenza continuai semplicemente a fare quello che già facevo (magari con maggiore frequenza).

La questione cruciale della trasformazione – quello che veramente mi preme di dirti – sta nel fatto che con essa divenne una pratica consapevole; non più, quindi, effettuata in modo spontaneo, ma ricercata. La stima effettuata prima di conoscere il significato della parola si rivelò presto inadeguata. Prima del tempo delle seghe c’era un tempo in cui ci si toccava con piacere, senza vole raggiungere l’orgasmo. Anzi! Ricordo bene che poco prima della fuoriuscita del liquido seminale tendevo a fermarmi per via di quello che avvertivo come un a specie di leggero dolore. Ma era un altro tempo, in cui non distinguevo bene il dolore e soprattutto non ricercavo primariamente il piacere, perchè tutto il mio mondo ne era colmo.

All is full of love, all around you.

All – (was/will be) – full – of – love

Se vuoi, puoi continuare a leggere ascoltando questo pezzo.

L’eiaculazione raggiunta al fine (e come fine) di una sega (la boum) non ha più niente a che vedere con “la prima goccia bianca”. Una volta avvenuta la concettualizzazione e la conseguente socializzazione della masturbazione avviene un passaggio difficile da cogliere ma fondamentale.

Nel momento in cui ti fai una pippa sapendo (credendo di sapere) quello che stai facendo, lo fai perché e per come ti è stato detto di fare; lo fai aiutandoti con il ricordo della scollatura della maestra o delle gambe della bambina a cui hai alzato la gonna. La fantasia distrae il tuo piacere e lo distoglie dal suo originario crogiolo pulsionale.
Alla masturbazione è quindi legata una insoddifazione che non ha proprio nulla a che vedere con la mancata appagazione sessuale. L’insoddisfazione legata alla masturbazione (sia come motivo, sia come conseguenza) discende dal narcisismo che il nostro ego acquisisce con l’età. Per questo credo che quel narcisismo andrebbe abdicato in favore di un reinnamoramento, ma – bada bene – non di un reinnamoramento di se stesso; bensì di un innamoramento senz’assenso.

Per spiegarti meglio cosa intendo con “innamoramento senz’assenso” non ti parlerò di Freud, che comunque ti consiglio di leggere, ma farò riferimento a due grandi che hanno scritto prima di me: Chaplin e Battiato.

Per farla semplice: Chaplin rivendicava un reinnamoranto di sè stessi, un innamoramento con assenso, un dire di sì al proprio ego; Battiato si riferisce ad un innamoramento senza assenso, ma lo fa molto più poeticamente di me, contestualizzando “la prima goccia bianca” fra il Tigri e l’Eufrate.

Ecco come descrive Chaplin l’innamoramento con assenso. Il testo integrale della poesia lo trovi al seguente link, se vuoi.

As I began to love myself I freed myself of anything that is no good for
my health – food, people, things, situations, and everything that drew
me down and away from myself. At first I called this attitude
a healthy egoism. Today I know it is “LOVE OF ONESELF”.

battiato

Battiato, in un certo qual modo, ne parla in “Mesopotamia” e descrive questa fase come un “innamoramento senza senso”.

La valle tra i due fiumi della Mesopotamia.

Ora mi sento in dovere di dare una conclusione a quello che ho cercato di scrivere. Sono proprio stato fuorviato dal metodo scientifico!

Riassumendo: quando iniziamo a “masturbarci” poniamo fine a quel rapporto immediato che avevamo con il corpo che eravamo. Alla “prima goccia bianca viene assegnato il nome di “sborra” (o, più tardi, di sperma) e facciamo nascere in noi una irrevocabile insoddisfazione ovvero una incapacità di essere soddifatti di quello che siamo. Alla radice c’è una modificazione radicale, vale a dire un passaggio da una innominabile fase preidentitaria ad una fase della comprensione di noi stessi come persone aventi un corpo.

Dopo essermi concepito come avente un corpo, allora dó adito alla mia insoddisfazione, in quanto vedo quello che ho, vedo quello che hanno gli altri. Gli altri, nella mia immaginazione, non sono essenti ma a loro volta aventi dei corpi, che anche io potrei avere, e che desidero. Dopo aver irrevocabimente scambiato quello che siamo per quello che abbiamo, tendiamo a desiderare di avere piú di quello che abbiamo.

Anche prima del farsi una pippa ci si toccava in modo similie, da un punto di vista puramente meccanico. Ma psicologicamente era tutta un’altra dimensione. Questa dimensione viene descritta da Battiato come un'”innamoramento senza senso”. Qui Battiato si riferisce ad una fase della vita di ogni essere umano che precede la concettualizzazione imposta dalla civiltà (simboleggiata in tutto il suo splendore, ma anche nel suo derivante squallore, dalla Mesopotamia)Oltre ad essere un innamoramento senza senso-significagto, esso è anche un innamoramento senza senso-direzione, ovvero antecedente il direzionamento della nostra fantasia sui corpi che noi stessi sembriamo avere e che gli altri hanno. Prima della pippa non c`è alcun autoerotismo (cioè erotismo diretto verso se stessi), ma semplicemente un amore senza(s)senso.

Lo spavento della prima goccia bianca non nasce da quella “masturbazione” di cui tu andavi cercando. Mi dispiace di averti tratto in inganno con i tag. Ma l’ho fatto a fin di bene. Spero non ti dispiaccia.

Se vuoi, ascolta questo miracolo di canzone (anche musicalmente, da cd sarebbe meglio).

Lo sai che più si invecchia
più affiorano ricordi lontanissimi
come se fosse ieri
mi vedo a volte in braccio a mia madre
e sento ancora i teneri commenti di mio padre
i pranzi, le domeniche dai nonni
le voglie e le esplosioni irrazionali
i primi passi, gioie e dispiaceri.
La prima goccia bianca che spavento
e che piacere strano
e un innamoramento senza senso
per legge naturale a quell’età.
mesopotamia

Ps. Quando hai tempo divertiti a mettere a confronto questa versione con quella cantata (e parzialmente riscritta da Morandi) e dimmi che ne pensi.

Ps. La foto-copertina (titled: “Au(gen)garten”) l’ho scattata in un pomeriggio del lontanissimo 6 gennaio 2014 in un parco, il primo vero parco pubblico di Vienna, l’Augarten.

Qui (su Panoramio) ho caricato un’altra immagine del parco, più chiara in riferimento al luogo e al tempo, ma non all’impressione.

Battiato  Mesopotamia Innamoramento Goccia Bianca

Le cose che cadono – Part 1: “Mesieri”

The so called Kalendae

Vienna, 03.11.2013

Ore dieci in punto

Le circostanze mutano. Le stanze pure.

Quella nella quale mi rifugio attualmente si trova a Vienna, ed è talmente piccola che a guardarla da fuori non sembrerebbe mai poter essere in grado di contenere una persona; figuriamoci un uomo con tutti e trenta i suoi anni.

Col mutare delle stanze che ti circondano, sorgono anche nuove necessità espressive; già, perché esprimendosi si dovrebbe cercare di far chiarezza attorno alla nuova situazione anziché limitarsi a trovare nella nuova situazione gli stessi attributi e le stesse fattezze che caratterizzavano la situazione precedente. Le precedenti modalità espressive non possono quindi restare totalmente valide e riutilizzate integralmente per descrivere la stanza che cambia; e per descrivere, con essa, la stanza della stanza (che chiamiamo mondo), e la stanza della stanza della stanza (che chiamiamo universo, e la stanza della stanza della stanza (che non chiamiamo proprio – e che probabilmente non cambia poi tanto spesso quanto la “mia” stanza).

È facile notare le differenze fra due stanze appena cambiate; meno facile, ma comunque accessibile a chiunque voglia osservare, afferrare i mutamenti che avvengono nella stanza della stanza. Impossibile percepire (e forse concepire) un mutamento della stanza della stanza della stanza. Alcuni Hanno, per questo motivo, scambiato la nostra impossibilitá di percepire/concepire quest’ultimo tipo di mutamento con la necessitá che questo mutamento non possa avere luogo.

Ma i mutamenti di stanza della stanza avvengono sotto gli occhi di tutti. E tutti dovrebbero adeguarsi. Ad esempio, la percezione e l’utilizzo delle unità di misura temporali sono  cambiate, e questo ha indotto o sta generando nuovi bisogni, e quindi nuove esigenze espressive, alle quali, tuttavia, ancora mancano le corrispettive, aggiornate modalità espressive.

Ieri, ad esempio, cercavo nella mia mente una parola per dire in modo corrispondente al mio pensiero qualcosa come: “sono arrivato a Vienna il mese scorso”; manca una parola che, similmente alla parola “ieri” nei confronti del concetto “il giorno scorso”, racchiuda il concetto di “il mese scorso” nel corpo di un unica parola. Non è la stessa cosa dire “sto qui da un mese”, “sono arrivato un mese fa” e “quello che avrei in mente di dire ma non posso perché mi manca la parola adatta”.

La parola “ieri” condensa il passare delle scorse (circa) 24 ore in una sola parola, dando a quelle 24 ore una puntualità temporale, e minimizzando quella che ne è stata la sua durata. Nella percezione del tempo che quella parola fornisce, si comunica che l’arco di tempo in questione non è così rilevante per il suo essere stato passante (durata), ma per il suo essere già stato passato, vale a dire per la sua collocazione in un arco di tempo più esteso, rispetto al quale solamente quel punto assume un significato. Io ho l’impressione che la stanza della stanza (il cosiddetto mondo) stia cambiando i suoi parametri temporali nel senso che il mese dovrebbe poter essere espresso, anche nella sua forma trapassata, come unità puntuale.

Poniamo l’esistenza di una parola tipo “mesieri”. Allora potrei dire “sono arrivato giusto mesieri,  adesso posso mettermi disfare i bagagli”. Talmente tante sono le cose da “sbrigare”, che il piano temporale che ognuno di noi elabora nella propria gestione della vita diventa sempre più concentrato. Si tende a mettere in relazione stringhe temporali sempre più complesse;  questo rende poco pratico suddividere il calendario in giornate, tanto quanto sarebbe poco pratico misurare la distanza Vienna-Berlino in piedi, o misurarsi il pene in frazioni di anni-luce.

Dubito che un domani, a cospetto di questi mutamenti, moriremo ad etá stimabili in secoli anziché in anni. Potremmo comunque riservarci il diritto alla precisione, e calcolare le nostre vite in mesi. Una cosa è dire: “Hitler si tolse la vita all’età di 56 anni”. Altro si lascia intendere con “Hitler si suicidò nell’aprile del 1945, pochi giorni dopo il suo 672mo comlimese”!

io ora - Kopie (2)
Foto – Emanuele Sbardella: “Le dieci in punto, ovvero 21:58:48,3 periodico”

Il rifiuto di un invito

Ieri sono stato invidiato a cena.

(Ah, se solo il mio ospite avesse saputo quanto poco io mi ritenga degno del suo invito!)

In un primo momento, a dire il vero, non avevo nemmeno capito bene si trattasse di un invito. Non che io sia cosí pretenzioso da necessitare un bigliettino scritto con stilografica e sigillato a cera… no, è che purtroppo ho una certa incapacitá nell’afferrare questo genere di trattative interpersonali (un po’ come quando qualche giorno fa, con scandaloso ritardo, mi era saltato in mente che quell’affabile ragazza non era necessariamente cosí interessata al volumetto di sulla Berliner Sezession del 1906 che avevo appena scovato, e che per me invece rappresentava la sola ed unica condizione di esistenza delle nostre “espressioni”). Fatto sta che anche nel caso dell’invito di ieri sera, avevo tardato un po’ nell’afferrare la sua vera natura; troppo tardi per potermi sottrarre a quel quel piatto di riso scotto, che pur gentilmente mi è stato offerto.

Il fatto è che, al di lá della mia inadeguata capacitá relazionale, inviti di questo genere proprio non si possano rifiutare! Se anche avessi arguito con largo anticipo, non avrei comunque avuto modo di sottrarmi. Se infatti uno, in questi casi, esprimesse con tutta la gentilezza possibile la propria disinteressata e magari anche ben motivabile volontá di non accettare, ebbene costui verrebbe proprio per questo ancora piú invitato di prima!

Ineluttabile o meno, resta per me la constatazione di un dato di fatto, che è poi anche quello che piú mi premeva di scrivere: io non avevo mai ritenuto di essere passibile di venire invitato da chicchessia. No davvero, non è per fare il Leopardi di turno. Non credo di essere particolarmente mediocre, ma nemmeno sufficientemente eccellente in una qualsivoglia disciplina, da poter essere fregiato di tale riconoscimento. Voglio dire: se non fossi me stesso, non avrei niente in particolare da invitare ad uno come me. Se non fossi me stesso… Ma precisamente per il fatto che invece il piú delle volte sono proprio me stesso, diciamo che mi sono abituato alla mia compagnia e, se non addirittura piacevole, la trovo quantomeno accettabile. Questa condizione di accettazione mi aveva sempre sinceramente impedito di credermi degno di simile invito. Semplicemente non mi ero mai posto la questione (che poi: perché mai invitarmi a cena quando di default mangio sempre con me stesso?).

Ecco, ora ora che il dado è stato tratto (e per dad intendo qui quello uasto per fare il brodo con cui è stato preparato suddetto riso) rimango solo, o meglio: con un me stesso un po’ rivalutato, a riflettere che probabilmente molte persone, in modo simile a me, convivono con se stesse tendendo a pensare di avere meno da essere invitate piuttosto che non da invitare. Se questa considerazione fosse anche solo statisticaemnte verificabile nella maggior parte degli esseri umani, se ne potrebbe ricavare uno di quei saggi pensierini che figurano sempre bene nei fogliettini allegati a cioccolatini dozzinali o in esergo a capitoli di tesi ancor piú scadenti:

Se proprio non puoi fare a meno di invidiare qualcuno, premurati almeno di non far scuocere il riso, cazzo!

Il mio consiglio per la serata.

Ps. Forse ogni tanto bisognerebbe concedersi davvero il lusso di invitarsi a cena!

Al Netto delle mie miseire

Tornando stanco dal lavoro devio in direzione dell’unico discount ancora aperto. Lo stramaledetto Netto.

Mentre smucino in tasca gli spiccioli che attestano il mio diritto a non morire di fame, gia´ pregusto la gommosita´ delle verdure nelle quali le mie monete si stanno per trasformare. In direzione opposta incrocio una vecchietta tremolante, che si trascina appresso due buste giallolimone. (Avrei voluto poter scrivere “avanza verso di me una vecchietta”, ma il suo Fortbewegung muoversi in avanti era praticamente solo il volenteroso frutto della  mia sovrainterpretazione delle sue volontaa´ davvero poca cosa se paragonato alla portata dei suoi cedimenti laterali). Nella strada poco illuminata i suoi occhi spenti risaltano come una lampada alogena in una distesa di candeluzze.

“Se solo fossi meno stanco, avessi piú tempo o se solo almeno andassimo nella stessa direzione… le avrei portate io quelle buste giallolimone! Mi sarei fatto vicino, mi sarei fatto. Avrei sfoderato un sorriso degno del miglior Obama e le avrei proposto di accompagnarla a casa. Senza nemmeno chiederle di votare per me.

Ma sono troppo stanco, ho davvero poco tempo… cazzo, davvero poco tempo! E poi, scusa, gli altri? Saranno mica tutti stanchi come me? Dovranno mica tutti subire le pressioni che subisco io! Perche´ non l’aiutano loro, loro che potrebbero… Gente indegna. Maledetti indifferenti! EGOISTI!!

Se io l’avessi incontrata facendo il percorso opposto. Allora si… allora…

..o forse no. Forse avrei trovato altre scuse per poter continuare a crogiolarmi nel tepore delle mie piccole afflizioni.

Come sono meschino.

Piccolo egoista.

Piú meschino ancora di loro, degli indifferenti!”

Provo dolore. Sincero dolore.

La sincerità di questo dolore mi serve per mettermi la coscienza apposto e continuare a concentrarmi sul mio beneamato disagio.

Bello stronzo che sei! Bravo! Ti sei volutamente afflitto per quei 3 secodi necessari a reimpostare il tuo menefreghismo ed ora pensi di poter continuare a ritenerti innocente, o quantomeno meno colpevole di loro, degli indifferenti egoisti, che non solo non l’hanno aiutata, ma nemmeno se ne sono fatti il nobile pensiero che tu ti sei almeno fatto. Che tu ti stai facendo. Di cui tu ti stai approffittando.

Loro…

E come fai a sapere che anche loro, gli indifferenti egoisti non abbiano fatto lo stesso o addirittura non siano persino andati oltre, non siano andati, diciamo, piu´ vicino di te al muoversi al compassione?

Non so se sia piú squallida la scritta rossa su quelle buste giallolimone o la mia vanità nel rielaborarla per il mio blog, la mia speranza di trovare un riscontro nella stima di chi legge ed in questo modo di omettere a me stesso la mia povertà d’animo.

IFFF

Mir geht es nicht darum, den wahren Unterschied zwischen Meinungs- und Vorurteilsäußerungsfreiheit auszumachen. Beide gehören dem Bereich des freien menschlichen Denkens. Zudem bin ich nicht in der Lage, es urteilen zu können, ob ein islamfeindliches Film einen künstlerischen Ausdruck oder eine kitschige Sammlung von Stereotypen ist. Wenn es auch möglich wäre, solch eine Entscheidung eindeutig zu treffen, würde das Wesentliche dadurch eher nicht berührt.

Was ich aber als unerträglich empfinde, ist die Arroganz derjenigen, die davon ausgehen, dass etwas wie die Ausdrucksfreiheit überhaupt einschrenken werden könnte.

Bevor man solch eine Freiheit einschränkt, sollte sie wenigstens einmal vorhanden gewesen sein.

Noch wichtiger:

Bevor man um die Verteidigung dieses Rechts kämpft, sollte man sich zunächst um ihre Ausübung fleißig und beharrlich Bemühung gegeben haben.

Viel zu leicht vergisst man, dass wir über eine überwältigende Freiheit verfügen, die unvergleichbar umfangreicher ist, als die belanglose Quote von eigenen Ideen (seien sie  Meinungen oder Vorurteilen), von welchen man Gebrauch machet.

Würde es eigentlich irgendeinen Sinn machen, ein Islamfeindliches Filmfestival (IFFF) zu organisieren, wenn dann jeder (pro oder contra) an der Provokation staut und keiner (pro wie contra) interessiert wäre, sich ein einziges Film anzuschauen?

Ich würde es allerdings für sinnvoller halten, eine Demo für die Einschränkung der Vorurteilsäußerungfreiheit zu organisieren…

Ps. Das Cover-Photo dieses Posts stellt die Fassade eines Kitas in Lychener Straße dar. Ich habe das vorgestern gemacht: in Panoramio ist eine grössere und geo-tagged Version verfügbar.

efficienza: quite a smart goal


Poniamo il mio obiettivo sia quello di fare in modo che il lettore porti a termine la lettura di quanto scritto in questo lungo post (almeno a partire dal contenuto di queste parentesi).

Forse potrei iniziare con il formulare l’obiettivo in modo più ‘letterario’, qualcosa del tipo :

“Fosse mia premura quella di accompagnare il lettore sino all’epilogo di questo breve scritto…”.

Mi domando: cosa cambierebbe?

Alcuni potrebbero ritenere che sia avvenuto un avvicendamento in seno alla strategia narrativa. Ebbene, costoro non avrebbero capito un bel cazzo di niente. Non solo nulla cambia veramente quanto quel che pare cambiato era progettato che cambiasse, ma soprattutto perché il termine strategia implica una efficienza che non riguarda e non questo testo.

Mi limito a scrivere di questo testo (mentre scrivo questo testo) benché la questione di fondo sia di ordine generale: potrebbe qualsivoglia testo essere efficiente? Non sarebbe persino eticamente corretto limitarsi a testi efficienti? Che sapore avrebbe un testo che, se non proprio efficiente, fosse ‘almeno’ efficace? Non sarebbe addirittura meglio astenersi dallo scrivere un testo che non sia efficace né efficiente?

(Ipse dixit: “Wovon man nicht reden kann, …”)

Un momento. – Ma come distinguo un testo efficace da uno efficiente? Dovrei domandare prima che differenza ci sia fra efficacia ed efficienza überhaupt (ma stavolta non lo domando a me, bensi´ a Google).

Una risposta rappresentativa fra quelle fornite da Mr. G può ritenersi la seguente:

“L’efficacia indica la capacità di raggiungere l’obiettivo prefissato, mentre l’efficienza valuta l’abilità di farlo impiegando le risorse minime indispensabili”

(link al risultato di ricerca prescelto).

Se questa fosse la risposta corretta, o anche solo una risposta plausibile, ne deriverebbe la paradossale implicazione che l’uso del comparativo sarebbe inconciliabile con l’aggettivo efficace. Se, infatti, una determinata azione possa essere aggettivata come efficace semplicemente nel momento in cui raggiunge uno scopo desiderato, allora la si dovrebbe aggettivare come inefficace in qualsiasi altro momento, a prescindere da qualsiasi “ma mancava poco” o “c’ero quasi”. Che senso avrebbe dire che una azione sia piú efficace di un altra quando la differenza significativa la fa solo il raggiungimento dell’obiettivo?

Prendiamo – ad esempio – il mio iniziale obiettivo. Riconoscendo la sua rozzezza lo si potrebbe riformulare come segue:

“Rendere il presente testo integralmente accessibile ad almeno un lettore”.

Dal mazzo dell epossibili strategie disonibili tiro due carte.

Strategia A: utilizzare uno stile ironico e fitto di rimandi interni al testo che mantengano alta l´attenzione);

Strategia B: essere succinto e chiaro; avallare con ritmo incalzante ciascuna ipotesi con dati di fatto chiari e concludere con una affermazione decisa e facilmente spendibile.

Ora supponiamo che un certo Lettore X non esaurirebbe la lettura di questo testo né al verificarsi di A né al verificarsi di B: come potremmo misurare il grado di presupposta inefficienza quando il principale obiettivo è dichiaratamente stato mancato e magari il succo dell´articolo, posto in qualche misterioso angolo verso la fine del testo, non sia stato nemmeno sfiorato? La misurazione qualitativa, basata sua scala regolata convenzionalmente (numero di caratteri letti, di secondi impiegti, di imprecazioni lanciate), non puo  in alcun modo tenere “conto” della qualità dell´obiettivo, la quale giace nascosta al di fuori della portata di ogni unità di misura, pronta ad ogni passo e rimettere in discussione ogni tentativo di misurazione e di interpretazione fino a quel punto effettuato. Il senso di un testo potrebbe trasformarsi imprevedibilmente nonappena il lettore svolti un apparentemente innocuo punto e virgola; il senso potrebbe raggrumarsi fitto fitto in un cantuccio poco appariscente della schermata, oppure non palesarsi mai del tutto e rimanere una nebbia che aleggia per la pagina con addensamenti dove le linee dei caratteri ne racchiudono tipograficamente gli spazi.

Allora forse è da ridisegnare l’obiettivo. Proviamo a precisarlo:

“Non solo fare in modo che il Signor Variabile si sorbisca l´intero malloppo, ma anche che ne ricavil il proprio senso”.

A ben vedere le cose si complicano non poco. Perché non solo il senso dell’obiettivo si sottrae ad ogni misurazione, ma si sottrae prima di tutto a se stesso. Cerco di spiegare meglio in senso di quanto appena scritto.

Visto che che tutti gli impavidi che giungeranno alla fine trarranno conlcusioni interpretative imprevedibilmente diverse e necessariamente inconcilianti, se il presupposto dell’obiettivo era quello di fare leggere tutto il testo per trasettere un determinato messaggio… allora il testo non può che essere inefficace. Nessuna strategia pescata dal suddetto mazzo potrebbe evitarlo. L’unica via, o meglio: l’unico crocevia praticabile resta – per quanto paradossale possa apparire – quello della efficacia.

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Non credo sia quindi l’obiettivo a dover essere ridisegnato, ma il senso della parola efficacia.

Io non credo che l’efficacia abbia a che vedere con il raggiungimento di uno scopo (detrerminato, voluto, prefissato e positivamente connotato). Piuttosto mi sembra che implichi un generico ed indeterminato sortire un effetto. Una azione alla quale segua causalmente un effetto qualsiasi, purché percepibile, questa è un’azione efficace.

Una azione non efficace sarebbe un’azione che, pur interagendo nel contesto, non si ripercuote significativamente su di esso (almeno non dal punto di vista dell osservatore).

Una azione piu efficace, invece, potrebbe dirsi di un’azione che sia in grado di mettere in moto una concatenazione di effetti piu vasta o piu duratura, ma non per questo piu efficiente! Anzi. Forse il contrario.

L’opinione corrente vuole che l’efficacia sia una specie di upgrade dell’efficienza, dove per entrambi l’obiettivo pare fissato, ma con la efficienza lo si raggiungerebbe con maggior concretezza, e quindi meglio. Io credo che l’efficacia non sia meglio dell’efficienza (forse in quanto prediligo l’astrazione alla concretezza).

La stessa corrente opinione vuole che efficacia ed efficienza non possano essere in contraddizione, ma solo trovarsi a diversi livelli di perfezionamento su una scala ben ordinata e comunque ascendente. Io credo che l’efficienza potrebbe essere il contrario dell’efficacia, visto che un elevato numero di effetti provocati senza riguardo verso un obiettivo preciso potrebbero bene far sfumare quell’obiettivo.

L’efficienza, insomma, può ben essere del tutto inefficace.

Se si assume che un obiettivo non sia arbitrarimente fissato e si ripone sicera fede nella bontà di quest ultimo, naturalmente si considera l´iperefficacia come una dannosa discrasia, uno sbarramento lungo la via maestra che conduce al successo.

Se invece uno pone in primo piano la relatività di qualsivoglia obiettivo, questi allora non incontrerà sbarramento alcuno; bensì accoglierà con gratitudine il groviglio di strade aperte da una generosa efficacia.

È davvero rilevante qualcuno abbia letto fin qui cogliendo esattamente il presunto messaggio che io volevo trasmettere? No. Oltre ad essere impossibile è anche irrilevante. Forse la strada migliore l’ha scelta il lettore impaziente che abbia letto dapprima quest’ultima riga ed abbia consequentemente scartato il torsolo.

Kierkegaard und das wiederholte Berlin

1843 > 2012

“Nach Berlin kam ich aber. Sogleich eilte ich zu meinem alten Logis, um mir Gewissheitdarüber zu verschaffen, wieweit eine Wiederholung möglich sei”.Ich darf jedem teilnahmvollen Leser versichern, daß es mir beim vorigen Mal gelungen war, eine der angenehmsten Wohnungen in Berlin zu finden, das kann ich jetzt entschiedener versichern, nachdem ich weitere Wohnungen gesehen habe. Der Gensd´arme-Platz ist wohl der schönste in Berlin, das Schauspielhaus, die beiden Kirchen nehmensich vor allem bei Mondschein, von meinem Fenster aus gesehen, besonders gut aus. DIe Erinnerung daran trug viel dazu bei, daß ich mich auf den Weg machte”.

Berlin - Jägerstraße 57 (heute)
Berlin – Jägerstraße 57 (heute)

 “[…] Ach! Aber hier waren keine Wiederholungen möglich. Mein Wirt, der Drogenhändler, >er hatte sich verändert<, (im dän. Text auf deutsch), in dem genauen Sinne, wie der Deutsche dies Wort nimmt, und, soviel ich weiß, wird in einigen Kopenhagener Straßen >sich verändern< in ähnlicher Weise angewandt –: er hatte geheiratet. Ich wollte ihn gratulieren, aber da ich der deutschen Sprache nicht so mächtig bin, daß ich mich im Handumdrehen drehen kann, auch nicht die bei solchen Gelegenheiten gebräuchlichen Redensarten parat hatte, beschränkte ich mich auf eine pantomimische Gebärde. Ich legte die Hand aufs Herz und sah ihn an, während zarte Teilnahme auf meinem Gesicht zu lesen stand. Er drückte mir die Hand. Nachdem wir uns in dieser Weise verständigt hatte, ging er dazu über, die ästhetische Geltung der Ehe zu beweisenEs gelang ihm außerordentlich, ganz genau so gut wie das vorige Mal die Vollkommenheit der Junggesellen zu beweisen. Wenn ich Deutsch spreche, bin ich der nachgiebigste Mensch von der Welt”.

S. Kierkegaard, Die Wiederholung, 1843 (übersetzt von H. Rochol), Felix Meiner Verlag, Hamburg 200, S. 24-5

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Funktion/Ornament des Glases

Das bedrückte Foto

Hier berichte ich über den wissenschaftlichen Beitrag, den ich heute im Rahmen des Seminar von Frau Wittmann-Englert zum Glasarchitektur geleistet habe. Es geht um das Verhältnis Funktion/Ornament, in Hinsicht auf die Architektur von Herzog & de Meuron, bzw. auf das Ricola Gebäude. Ich habe den theoretischen Teil v. a. anhand der Schriften von  Adorno untermauert.

Auf dem Blog schreibe ich nur ein Résumé. Das vollständige Papier “Die ornamentale Funktion” kann man bei Scribd lesen. Es ist folgendes Link abrufbar/zitierbar: http://www.scribd.com/doc/99128411

04.07.2012
 
SE 3132 L 519 Glasarchitektur
Prof. Dr. Kerstin Wittmann-Englert
Thema: Architektur und Kunst
Referenten: Anne Wesolek, Emanuele Sbardella
Grundriss des Ricola-Gebäudes
Grundriss des Ricola-Gebäudes

Resümee meines Manuskripts

Innerhalb des breiten Spektrum der Beziehungen Kunst/Architektur werde ich hier auf Verhältnis Funktion/Ornament fokussieren, mit dem Versuch dieses in einen historischen-theoretischen Kontext einzubetten.

In mehrere Stellen setzten sich Herzog & de Meuron (hier in einem Foto mit Ai Weiwei) bewusst jenseits der Entwicklung Moderne>Postmoderne, und damit auch jenseits der Dialektik Funktion/Ornament, die jede Phase dieser Entwicklung geprägt hat.

Im Jahr 1995 zBs erkläre Herzog, dass Glas kein Symbol der Modernität ist.

Im Gegensatz zu Deutschland, das von Romantik geprägt ist „in der Schweiz fehlt eine solche Kultur der Radikalität. Daher legen wir die Gegenübersetzung von modernen Glas und traditionellen Stein wider. […] Tradition existiert nicht mehr. Vor zehn oder zwanzig Jahren hoffte die Moderne noch auf eine moderne Tradition, und die Postmoderne versprach, die Bildersprache vergangener Epochen zu erneuern. Heute aber ist die Herstellung eines Bauwerkes jedes Mal ein neues Problem. Was ist ein Theater? Wie sieht ein Fenster aus?“1.

Jenseits der Linearität der Entwicklung von Moderne zur Postmoderne findet sich gleichzeitig die Infragestellung der Funktion und des Materials.

Was für eine Bedeutung hat dann Glas, wenn es kein Symbol der Moderne ist? Wenn es kein Merkmal weder der idealen Transparenz noch der künstlerischen Vollkommenheit?

Um diese Frage zu beantworten eine Voraussetzung ist, dass wir den Bezug zum Referat Architektur/Ideologie parat haben. Historische Ausgangspunkt ist die Mitte der XIX. Jahrhunderts, und zwar die Zeit wann das, was Adorno und Horkheimer Dialektik der Aufklärung genannt haben, fängt an sich zu zeigen.

In jener Zeit:

  • die Umwälzungen der Politik schaffen die Umständen für die Stadtplanung von Haussmann (Paris 1853-70);

  • die Fortschritte der Technik veranlassen das Bauen des Crystal palace (London 1851).

    J. Paxton: Crystal palace (London, 1851)
    J. Paxton: Crystal palace (London, 1851)

Diese Ereignisse, die nur funktionale Ziele zu erfüllen scheinen, weisen in der Tat eine Rückseite auf:

  • die rationalisierte Stadt wird zur Maschinerie der Überwachung und der Kontrolle;

  • die Befreiungskraft des Marktes wird zur kapitalistischen Tyrannei.

Die Idee von Funktion

Im Namen  eines vermeintlich neutralen Funktionalismus wurden architektonische Planungen drastisch durchgesetzt und künstlerische Programme peremtorisch verfochten.

Um die Schwelle zum XX. Jahrhundert scheint der Funktionalismus beherrschend zu sein…

sowie im Russland als auch in den USA, im deutschsprachigen Gebiet als auch im französischen.

…Beherrschend und zugleich mit der Frage nach dem Material verbunden.

Das Glas galt als Inbegriff des modernen Materials und wurde noch als Träger der positiven Utopie wahrgenommen.

Nur in den letzten 50 Jahren wurde diese Wertschätzung kritisch in Frage gestellt.

Offensichtlich bricht diese positive Vorstellung mit dem Ausbruch der Weltkriegen zusammen.

…Und genau aus dieser dramatischen Erfahrung nahmen Adorno und Horkheimer Anlass, ihr Schrift aus dem Exil in den USA zu verfassen. Im Auftakt ihrer Dialektik der Aufklärung schrieben sie: „Seit je hat Aufklärung im umfassendsten Sinn fortschreitenden Denkens das Ziel verfolgt, von den Menschen die Furcht zu nehmen und sie als Herren einzusetzen. Aber die vollends aufgeklärte Erde strahlt im Zeichen triumphalen Unheils. Das Programm der Aufklärung war die Entzauberung der Welt“1.

Warum? Woran ist man gescheitert? Warum sind Menschen noch nicht Herren sondern vielmehr durch eine integrierte und zweckgerichtete Kunst beherrscht? Man sei daran gescheitert Funktion und Ornament abzuwägen, und zwar würde die funktionale Seite des Denkens in Form einer „instrumentellen Vernunft“ falsch angesetzt.

Sie beschreiben das Ideal der Aufklärung als das System, „aus dem alles und jedes folgt“. Aus ähnlicher Einstellung zur Vernunft entstand solch einer Funktionalismus, der das Ornament als überflüssige Abweichung von einer ideellen Bauweise verurteilt hat. Das Diktum des modernen Funktionalismus lautet: Form follows function (genauso wie in der von Adorno beschriebene Aufklärung). Der amerikanische Architekt Louis Sullivan (der diese Maxime geprägt hat) schrieb 1896 auch: „All things in nature have a shape, that is to say, a form, an outward semblance, that tells us what they are“2.

Was sich in diesem Leitgedanke versteckt, ist die irreführende Annahme, dass es vor und unabhängig von der Form eine Funktion gibt. In der Tat geht aber jede wahre Wissenschaft von der Beobachtung einer bereit existierenden Form aus. Und keine abstrakte Funktion besteht, der weder die Natur noch ein Architekt eine angemessene Form vergeben kann. Also… Moderner Funktionalismus erweist sich eigentlich, sich auf eine Art platonischen Idee der Funktion zu beziehen.

Wir werden sehen, dass Herzog & de Meuron genau aus dieser widersprüchlichen Tradition entkommen.

Herzog & de Meuron: Ricola Europe (1992/93)
Herzog & de Meuron: Ricola Europe (1992/93)

If (squared)

17.06.2012,

a seguito di una email, inseguito da me

. duchamp

Mi manca il lemma. Ma ho la definizione: Quello che quando capita ti sembra non sarebbe potuto capitare altrimenti.

Ne propongo una visualizzazione (rolling over col mouse per “leggere” le immagini): Resoconto a scacchiera di un giorno a Sanssouci, senza motivo apparente.

Randomly, sans soucis.

.duchamp problem problemes ducham problem problema duchamp marchel 

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Il n’y a pas de solution parce qu’il n’y a pas de problème

marcel duchamp