Interview with Santiago Morilla

Pubblico la video-intervista che ho condotto insieme a Federica Forti e Carolina Pozzi a Santiago Morilla, artista madrileno che ha vinto una borsa (in spagnolo, beca) per condurre nel 2010 un periodo di residenza presso la Real Academia de España en Roma (Raer).
Fu a Marzo che proposi a Santiago di realizzare un’intervista. Lavoravamo insieme da dicembre: egli era stato selezionato ed aveva già proposto due progetti di opere per partecipare a 20eventi – Arte contemporanea in Sabina (che io stavo curando). L’intervista si è poi tenuta il 30 marzo 2010, nei locali della galleria Co2 di Giorgio Galotti. Per l’occasione ho ritenuto doveroso ed opportuno coinvolgere anche Federica Forti (la quale stava curando un altro progetto artistico di Santiago Morilla: “Nidi”) e Carolina Pozzi, che al contempo voleva fare uno stage presso 20eventi e lavorava nella galleria Co2, in cui si sarebbe svolta a terza fase di “Nidi” (l’apertura di “Nidi 03“, cui colgo l’occasione di invitare i lettori, è prevista tra pochi giorni: il 16 settembre nel  nuovo spazio Co2).
Con questa formazione, l’intervista ha potuto offrire uno sguardo generale sulla ricerca di Santiago Morilla e addentrarsi con un’attenzione specifica sul suo percorso svolto a Roma. Questo è stato fatto sia indagando i temi che da anni sono oggetto della sua ricerca artistica, sia analizzando le opere progettate/realizzate nel corso dell’ultimo anno in particolare per “Nidi” e per “20eventi”.
Da questa strutturazione nasce la mia decisione di dividere l’intervista in sei parti e di raggruppare le sei parti in due aree.
Le prime tre parti (Area A) offrono un quadro generale della poetica e dello stile dell’artista; i temi di ricerca a lui più cari e le sue influenze.
Le seconde tre parti (Area B) dell’intervista entrano nel dettaglio delle opere. L’artista dichiare le sue intenzioni e approfondisce cncettualmente differenti aspetti.
Tutte e sei le parti sono incluese in una playlist (che permette di vedere tutti i video l’uno dopo l’altro), ma ogni video è anche collegato a tutti gli altri da collegamenti ipertestuali, il che permette di navigare e scegliere i contenuti (usando lo strumento di annotazioni video fornito da YouTube).
Inoltre ogni video ha sottotitoli (usando lo strumento per aggiungere di sottotitoli fornito da YouTube), che permettono di leggere quello che la cattiva qualità audio non permette a volte di ascoltare, e fa sì che chi non capisca lo spagnolo parlato possa più agevolmente comprendere soffermandosi su quello scritto. Per togliere/selezionare/modificare i sottotitoli utilizzare il pulsante rosso “cc” che compare in basso a destra nel riquadro video.
Al fine di spiegare e raccogliere tutta la struttura dei video ho anche creato un video-index che non è incluso nella playlist, ed è pensato soprattutto come punto di partenza per chi vedesse i video direttamente da YouTube senza passare per il mio blog.
Video-Index (mute, au ralenti, sottotitoli italiano & english subbed)
A_01: Roma Iperbarocca
A_02: Visa dall’alto
A_03: Il Dionisiaco caliente
B_04: “Nidi”
B_05: “Il Pesce trascendente”
B_06: “Gioco mostruoso”
Ringrazio Santiago, artista di genio ed amico geniale.
Ringrazio Carolina e Federica.
Ringrazio C02 gallery, nella persona di Giorgio Galotti.
Link correlati:

Berlin Biennale – Was draußen wartet

Venues

01_KW – Institute for Contemporary art (Auguststrasse, 69)

August Strasse 69
August Strasse 69 - Photo by Emanuele Sbardella

02_Oranienplatz, 17

Oranien Platz - Photo By Sbardella
Oranien Platz - Photo By Sbardella

03_Dresdner Strasse, 19

Dresdner Strasse - Photo by Emanuele Sbardella
Dresdner Strasse - Photo by Emanuele Sbardella

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> Other pictures from Berlin (tags on Panoramio, in progress)

> Some artworks (set on Flickr, in progress)

Public art as political action

> ITALIANO

Responsibilities of the curator-anthropologist

In the introduction to the catalogue of the 53rd Venice Biennale, Birnbaum reflects on globalization in relation to the mode of exhibiting of the event that, in 2009, he was called to curate.

On one hand, he asserts, globalization makes it possible to put the products of different local spheres face-to-face. However, there is the risk that the cultural differences are levelled. The anthropological concept that is revealed by these concerns, according to which there exists a human cultural sphere subdivided into a certain number of blocks derived from some mysterious primal nuclei, is of the positivist mould, and is not at the base of 20eventi.

The risk is that of considering culture an isolated (or isolatable) entity and subjecting it to a process of museumification, similar to that undergone by the work of art; values of rarity, immortality and exceptionality, to be conserved against deterioration, reproduction and contamination. It was precisely the art of the nineteen hundreds that showed that culture itself is subject to deterioration and has always been open to contamination.

In the case of an art curatorship that wishes to anthropologically contextualize an exhibition, if cultures are wrongly considered as separate tesserae of a vast mosaic, then one will find themselves vainly attempting to select works and artists able to mirror presumed cultural identities. In this way, not only is a mistaken vision of anthropology reinforced, but we would go back to saying that Plato was right, ensuring that art is offered to the public as a copy of reality. Although art cannot be separated from the social influences from which it is born, and in spite of the fact that the restitution of this split is often one of the greatest results an artist can achieve, an artwork can never be reduced to this. It is neither a highly representative cultural product nor of a higher order. Perfectly integrated and functional to the development of cultural contaminations, art can be considered the outpost from which it is permitted to put cultural orders back into discussion, of which it reveals the arbitrary nature and baselessness.

The anthropological worth of art must be truly assisted by the curator, who does not limit themselves to selecting, but acts as a mediator between artist and society, with the aim of analysing and contextualising the work of the artist. The resulting work, of which today nobody can debate its plurivocal nature, is not completely other in respect to local production (typical culture, that I would call folkloristic). But neither is it mixed with these if we continue to think of art as an engine for the continual rejuvenation of the semantic order of culture (or better, of its apparent uniqueness), maybe through the propagation of disorder.

If Birnbaum, in front of the danger of the levelling of cultural specificity hopes that art can maintain and defend its statute of “antagonistic force against such a flattening”, I hope that it can represent ever more an engine of cultural differentiation. Vivacious and with no respect for the limits and the specificity dictated by inexistent (or unnecessary) cultural confines.

It is in this context that 20eventi puts artists face to face with already mixed solutions; it works in a context that favours not only a synchronic cultural exchange and contamination, but also a farsighted gaze on the sedimentation and long-term effects that this exchange will bring in the years. The territory of the Sabina, in which the artists are invited to work, is not that combination of characteristic and immobile traits to be preserved, but a jumble of potentialities that mutate with time, including the intervention of 20eventi.

Emanuele Sbardella

Translation:

Lincoln Dexter

Arte pubblica come azione politica

> ENGLISH

Il curatore-antropologo e il ruolo politico dell’artista

(Intorduzione al catalogo di 20eventi 2010)

Nell’introduzione al catalogo della 53. Biennale di Venezia, Birnbaum riflette sulla globalizzazione in relazione alla modalità espositiva dell’evento che, nel 2009, egli è stato chiamato a curare.

Da una parte – egli asserisce – la globalizzazione dà la possibilità di mettere a confronto le produzioni di diversi ambiti locali. Tuttavia esiste il rischio che le differenze culturali vengano livellate. La concezione antropologica che si palesa da queste preoccupazioni, secondo la quale esisterebbe una sfera culturale umana suddivisa in un certo numero di blocchi derivanti da alcuni misteriosi nuclei originari, è di stampo positivista e non sta alla base di 20eventi.

Il rischio è quello di considerare la cultura come un’entità isolata (o isolabile) e farle subire un processo di museificazione simile a quello che fu dell’opera arte: valori di rarità, immortalità, eccezionalità, da conservare contro il deperimento, la riproduzione, la contaminazione. Proprio l’arte del novecento insegna che la cultura stessa è deperibile e da sempre aperta a contaminazioni.

Nel caso di una curatela d’arte che voglia contestualizzare antropologicamente una mostra, se le culture vengono erroneamente concepite come tessere separate di un vasto mosaico allora ci si imbatterà nel vano tentativo di selezionare opere ed artisti in grado di specchiare presunte identità culturali. In questo modo non solo si rafforza un errata visione dell’antropologia, ma si tornerebbe a dar ragione a Platone facendo sì che l’arte venga offerta al pubblico come una copia della realtà. Benché l’arte nono possa essere scissa dalle influenze sociali attraverso le quali nasce, e nonostante la restituzione di questo spaccato sia spesso uno dei maggiori risultati che un artista possa conseguire, un’opera d’arte non può mai essere ridotta a questo. Non è un prodotto culturale altamente rappresentativo o di ordine superiore. Perfettamente integrato e funzionale allo sviluppo delle contaminazioni culturali, l’arte può essere considerata l’avamposto dal quale è concesso di rimettere in discussione ordini culturali di cui svela l’arbitrarietà e l’infondatezza.

La valenza antropologica dell’arte deve essere proprio coadiuvata dal curatore che non si limita a selezionare, ma agisce come mediatore tra artista e società, con lo scopo di analizzare e contestualizzare il lavoro degli artisti. L’opera risultante, di cui oggigiorno nessuno può discutere la plurivocità, non è completamente altro rispetto alle produzioni locali (tipicamente culturali, direi folcloristiche), ma neppure con esse si confonde fin quando si continua a pensare all’arte come motore di rinverdimento continuo dell’ordine semantico di una cultura (meglio, della sua apparente unicità), magari attraverso la propagazione del disordine.

Quando ogni tipo di discorso formalistico per l’individuazione e definizione della cultura e delle opere che in essa agiscono è superato, la reintroduzione di un sano ragionamento sull’eziogenesi e sugli effetti dell’opera nell’ambito culturale è di fondamentale importanza. Qui, al fianco del ruolo del curatore-antropologo, occorre accennare al concomitante ruolo politico dell’artista.  La concomitanza è dovuta al fatto che la relazione fra artista e curatore è considerata parte di un complesso di relazioni totalmente discese nella produzione culturale, senza alcuna superiorità o distacco aristocratico. In tale relazione, che sembrerebbe abbassare il profilo dell’arte rispetto a teorie dominanti fino a pochi decenni fa (fino all’avvento dello strutturalismo in arte), in realtà è l’unico modo per restituirle l’antica funzione politica: la possibilità di sortire effetti nella gestione della cosa pubblica, senza estetizzazioni ideali, ma attraverso l’analisi e la rappresentazione delle criticità (tutt’altro che un semplice specchio della realtà; bensì uno strumento di azione). Il modello di azione politica può essere attinto diretta mente all’antichità ellenica. Non solo perché Aristotele entrava in antitesi con la visione platonica dell’arte come mera riproduzione del reale mettendo in evidenza l’azione catartica che un’opera poteva sortire sul suo pubblico.

Al di là della nota diatriba, i due filosofi condividevano un assunto di base che è è proprio il quid che andrebbe oggi recuperato prima di parlare di arte pubblica. Benché Aristotele e Platone avessero opinioni opposte sull’arte, la base delle loro argomentazioni era una a base condivisa e strettamente legata alla questione dell’educazione: quindi una base sociale e dai risvolti eminentemente politici. Nessuno dei due era interessato, come molti vanagloriosi che oggi si accontentano di aver realizzato opere in uno spazio pubblico o coinvolgendo il pubblico, all’arte in sé e per sé. Entrambi, piuttosto, non perdevano di vista gli effetti che la pratica artistica poteva sortire sull’artista e sul suo pubblico.

Se Birnbaum, di fronte al pericolo di livellamento delle specificità culturali si auspica che l’arte possa mantenere e difendere il suo statuto di “forza antagonista a tale appiattimento”, io mi auguro che essa possa configurarsi sempre di più come motore di differenziazione culturale, una vivacità irrispettosa dei limiti e delle specificità dettate da inesistenti (o innecessari) confini culturali.

È in quest’ottica che 20eventi mette a confronto artisti e soluzioni già meticcie, lavora in un ottica che non favorisce solo lo scambio e la contaminazione culturale sincronica, ma anche lo sguardo lungimirante sulla sedimentazione e gli effetti a lungo termine che tale confronto porterà con sé negli anni. Il territorio della Sabina, sul quale gli artisti sono invitati a lavorare, non è quell’insieme di tratti caratteristici ed immobili da perseverare, ma una congerie di potenzialità che mutano con il tempo, anche con l’interventi stesso di 20eventi. D’altra parte gli artisti invitati non vengono chiamati a rappresentare la nazione di provenienza, né l’identità  dell’accademia coinvolta, ma il modo particolare in cui tutti questi elementi formano in lui una particolare congiunzione culturale, nel segno della Sabina.

20eventi2010_Mireia Coromina Portas e Santiago Morilla

In questi giorni convulsi di preparazione di “20eventi – Arte contemporanea in Sabina” (che aprirà il 22 maggio – già convulsi? Ma mancano due mesi! Ebbene sì…) si ha anche il piacere di poter gioire in anticipo di alcune dolci pregustazioni di ciò che verrà.

Innanzitutto invito tutti a venire stasera 24 marzo al Pastificio Cerere, dove Santiago Morilla (artista in residenza presso il RAER e selezionato per 20eventi 2010) esporrà la prima parte di Nidi.

Locandina della mostra
Locandina della mostra

Contemporaneamente stiamo portando avanti il lavoro prposto da Mireia Coromina Portas. Il 26 inizieremo a tessere la trama! Un evento questo non pubblico: fa semplicemente parte della realizzazione dell’opera che l’artista ha impostato come collettiva. Non un evento, quindi, ma una significativa traccia di inizio dei lavori, che sarà bello poter portare avanti con le molte persone che già si sono prestate come volontarie. Per vedere meglio di che tipo di lavoro si tratta, invito alla lettura del mio breve articolo di presentazione sul blog di 20eventi.

6×6 + AGIta

Giovani Curatori Italiani

Team curatoriale

Quando? Il 2 febbraio… si, il martedì appena trascorso. Mi piace evidenziare questo scarto temporale di pochi giorni. Essi (mi riferisco al lasso temporale relativamente breve di due giorni) sono stati necessari a me per redigere queste poche righe; tuttavia sono anche utili a porre sotto la nostra attenzione l’antinomia di una contemporaneità che ci sfugge continuamente ma che allo stesso tempo sembra non dover arrivare mai.
Non sono pochi i filosofi che appoggiano la tesi della fine della storia, ed alcuni sono concordi nel marcare una svolta irreversibile in quel periodo di forte agitazione che fu il ’68.
Per Alessandro Fontana, ad esempio, il ’68 è una specie di passato che resta e che blocca nella sua incompiutezza la contemporaneità. La storiografia tradizinale non potrà linearizzarlo.
Per Mario Perniola con il ’68 si inaugura un periodo storico in cui gli eventi smettono di collocarsi lungo una rintracciabile linearità causa-effetto e smarriscono persino la consolidata possibilità di essere narrati. Il trauma, paradossalmente, è quello della scomparsa dell’azione nei meandri della comunicazione.
Io non voglio parlare di filosofia della storia, ma sono convinto che un modo ragionevole di considerare molti fenomeni “odierni” sia quello di ricollegarli a quel “presente” traumatico e mai realizzato. In relazione a tali rivolte di 40 anni fa vanno considerati i “ripensamenti”, le “trasfigurazioni” o le “rielaborazioni” di molti artisti contemporanei.
Così mi piace fare con l’evento artistico di cui mi accingo a parlare, forzando forse un po’ la mano sul significato di “agita”.

Tuttavia l’antinomia della contemporaneità, ed in particolare dell’arte contemporanea, giustifica tale interpretzione. Quando si collegano pratiche artistiche unite soprattutto dalla loro problematica autodefinizione e dall’altrettanto problematica collocazione temporale nel nunc, l’estensione e la sospensione del tempo presente balzano in primo piano. Infatti tali questioni sono primariamente presenti nella difficoltà di doversi destraggiare fra artisti perennemente combattuti ed opere eternamente in fieri. Questo è il dilemma principale che deve essere stato affrontato dal team curatoriale. Di fronte alla volontà di concludere il percorso di specializzazine professionale in curatore d’arte contemporanea, un impegno rilevante è stato profuso nell’intento di stabilre le cooridnate spaziali e temporali entro le quali racchiudere un lavoro sotto più punti di vista collettivo: colettivo di curatori, di artisti, di referenti accademnici ed istituzionali.

Prima di analizzare il modo in cui l’antinomia è stata affrontata, permettetemi di chiarire, a beneficio di quanti leggessero questo articolo senza avere assistito all’evento o avere avuto per le mani la preziosa cartella stampa preparata per l’occasione, quali individualità o entità andassero a comporre questi collettivi.

Team curatoriale, diviso in due reparti.
4 curatrici per la tavola rotonda:
– Ilaria Caravaglio
– Chiara Miglietta
– Valentina Pugliese
– Giovanna Sarno
7 curatrici e curatori per l’esposizione
– Silvia Bucchi
– Lincoln Dexter
– Diego Marchi
– Laura Laruffa
– Simona Raho
– Ersilia Rossini
– Valentina Trisolino

Artisti:
– Aurora Meccanica & Carlo Riccobono
– Niccolò Angeli
– Antonio Bardino
– Alessandro Battisti
– Ludovico Bomben
– Anna Di Prospero
– Massimiliano Pelletti
– Paolo Pennuti
– Giulia Ravazzolo
– Alberto Scodro
Tutti nati in Italia fra il 1974 e il 1987.

La istituzioni ed enti sono molteplici.
Ne dimenticherò, temo, alcune. Ma credo di poterle suddividerle fra ospiti ed espitanti.
Ospitanti:
MLAC
– Facoltà di Scienze Umanistiche
Ospiti:
Fondazione Baruchello
Fondazione Cerere
Fondazione Guastalla
Fondazione MAXXI
Fondazione Nomas
Fondazione Quadriennale

Nessuna di questa risulta, secondo una lista stilata lo scorso anno dal Sole24ore, fra le 21 più importanti d’Italia.

Detto questo, ora posso tornare ad analizzare l’antinomia e le soluzini curatoriali adottate.

Innanzitutto si è deciso di operare una scissione tematica ed organizzativa fra un momento teorico/intorduttivo, ed uno pratico/espositivo.
A tale schema è corrisposta una divisione del lavoro in team separati, che ha dato luogo a due momenti chiaramente comunicanti, ma forse non sufficientemente interdipendenti. Alla fine si è solo un po’ rammaricati del mancato dialogo fra le due sezioni dell’evento, che avrebbe potuto ad esempio portare a maggiori fondi da investire per un catalogo che manca a documentare l’evento, dargli profondità critica e riconoscibilità storica.
Concettualmente, tuttavia, tale scissione era molto utile per afforntare l’antinomia del contemporaneo. Infatti dalla tavola rotonda e dall’incontro con le fondazioni romane se ne voleva far emergere quadro complessivo esaustivo. L’aspetto che interessava snocciolare è consistito nel collocare questi enti eterogenei in un settore del sistema dell’arte in grado al tempo stesso di ammortizzare e sollecitare la fermentazione delle sperimentazioni artistiche contemporanee.

La tavola rotonda si è aperta con la proiezione di un video realizzato accostando le risposte dei rappresentanti delle sei fondazioni a sei domande circa i rispettivi enti ri appartenenza (storia, organizzazioni, funzioni).

Fotogramma del video

Ciò che è emerso dalla discussione che si è aperta successivamente è una sostanziale rivendicazione delle rispettive peculiarità e la volontà di conoscersi e collaborare.

I relatori i recano al tavolo

Alcuni ostacoli, tuttavia, sono stati individuati sulla strada da seguire verso questa unanimentemnte auspicata collaborazione.
I relatori hanno principalmente insistito sul problema derivante dall’incongruenza di pratiche ed obiettivi tipici di fondazioni che nascono da una precedente situazione pubblica rispetto alle pratiche e agli obiettivi che invece sono tipici di quelle di estrazione privata.
Altri ostacoli, che non sono stati detti, sono costituiti dal fatto che tale dialogo non può venir forzato e non sempre si otterranno risultati di maggior rilievo se si cerca di derimere le proprie particolarità a favore di un convergente dialogo. In fin dei conti la radicalità dell’arte e la mancanza sostanziale di un un accordo unanime circa la sua definizione ed i suoi obiettivi, fanno si che ogni approccio debba essere legittimato ad un isolamento talvolta anche antisolciale, laddove necessario o richiesto.
Su questo aspetto avrei voluto fare un appunto, se fossero stati preventivati maggiori interventi dal pubblico, circa la velata iposcrisia o l’ostentata ingenuità di alcuni nell’esprimere il più totale accordo nell’impostare questo network. In particolare quando poi invece si esacerbavano, a pochi minuti di distanza, le disanze  e le opposte rivendicazioni. La denuncia di una reticenza da parte delle fondazioni di origine pubblica ad interfacciarsi con il privato ed una pretesa delle fondazioni nascenti dal privato di diventare pubblico.

Il tavolo dei relatori

Sulla base di questo approfondimento introduttivo fornito dall’occasione della tavola rotonda, si  è maggiormente legittimata la scelta di focalizzare la mostra su quei giovani artisti italiani che in questo sistema dell’arte cercano appigli, amichevoli dialogatori, o magari idoli da combattere.

D’altro canto, tale scelta di nuotare nel mare mosso delle proposte artistiche provenienti da soggetti ancora scarsamente riconosciuti comporta i suoi pericoli. Pertanto è stata scelta la limitazione “giovane”, e quella, più sottile, di un’attitudine o di una tendenza al movimento, all’agitazione. Ricorrenti il tema dell’utopia da vetrina (Angeli, Pelletti) e del disagio sociale esposto in maniera contrastante rispetto agli splendori del neocapitalismo (Battisti, Pennuti), la critica al mercato dell’arte (Meccanica & Ricconobo, Ravazzolo) e le barriere sociali che impediscono l’accesso , i non luoghi (Bardino) e i luoghi finzionali (Prospero).

Scorcio sulla situazione espositiva

Ci sarebbe da approfondire ciascuno di questi temi che mi sono appena limitato ad elencare; scardinarli in ciascuna opera, ma il presente articolo vuole limitarsi ad un’analisi curatoriale del lavoro dei miei amici e colleghi (pertanto  preferisco momentaneamente mettere da parte, per quanto possibile, l’aspetto critico).

Emanuele Sbardella - fotografia d'arte
Emanuele Sbardella documenta le opere in mostra

Il mercato della frutta_Resoconto

Many thanks to Ruobing, Yak, Sai e Mei: artists, technicians and first of all real good friends.

Grazie ad Alessandro, Alessio, Marco, Ralla, Sarah e Titti: assistenti, professionisti e persone importanti nella mia vita.

Grazie ad Alfonso, Andrea G., Cheikh, Luca, Maxx e Valeria: relatori presenti, relazioni future e compagni di strada.

Grazie ad Andrea Z., Eloisa, Francesca e l’Imam di Ladispoli: personaggi pubblici, organizzatori e persone che hanno creduto in me.

Infine – e soprattutto – grazie ai lavoratori del mercato e alla mia famiglia. Entrambi questi gruppi, in modi diversi, hanno ospitato gli artisti trattandoli come loro membri ed hanno insegnato a me che il lavoro viene dalla terra e alla terra torna.

Questi ringraziamenti giungono alla fine di un percorso, che non è veramente finito e che ha visto la sua fase culminante nella realizzazione dell’evento “Il mercato della frutta – The pure products of  Italy go crazy”. Questo percorso era iniziato con Elsie, una ragazza americana con “una goccia di sangue indiano” cui era dedicata la poesia di Williams The pure product of America go crazy (1923) [1].

Giunto a questo punto conclusivo vorrei tracciare un parallelismo ed iniziare il resoconto citando un passo in cui i versi di Pasolini (La Terra del Lavoro) innalzano la figura di un’anonima donnetta del centro Italia a simbolo universale per la desolazione della condizione umana.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove –
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d’esser morta;
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.
[…]
Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

In questa donnetta, il lontano richiamo della Terra che si trovava in Elsie commisto a mille altre infiltrazioni, è amplificato e diviene quasi un rapporto di simbiosi. Non si tratta di un ritorno ad un autentico quanto bucolico invito a rivalutare passati riferimenti rurali, ma un consapevole sguardo al futuro della Terra. La donnetta non solo un simbolo universale per la desolazione, ma è soprattutto un’avanguardia per un movimento di totale soppiantamento del sé, di oltrepassamento dei soprusi e ridicolizzazione delle ingiustizie. In questa donnetta e nel resto dei poveri viaggiatori è custodito un messaggio di profonda e consapevole rassegnazione, il quale emerge da tutto l’amalgama contemporaneo e procede oltre il frammischiarsi di tratti organici e culturali sulla superficie di questo pianeta

Ciò che ai miei occhi si è palesato è una realtà in cui la connaturata curiosità e propensione all’altro viene spesso soffocata da meschinità indotta da ristrettezze economiche e da modelli culturali biechi. Lo scambio non avviene se non (per lo più) sulla base di convenienze personalistiche. Le poche persone di parola vengono impedite nella realizzazione di fatti da persone fatte di parole e scarsamente intenzionate a mettersi veramente in gioco.

Si può dire che l’evento abbia riscontato il suo maggiore successo nel coinvolgimento sincero di alcuni lavoratori al mercato e di pochissimi esperti nel mondo dell’arte contemporanea. Il suo maggiore insuccesso può esser misurato di fronte alle aspettative di una risposta collettiva e partecipata.

Al mio tentativo, quello di espandere antropologicamente la definizione di arte e di proporre, attraverso questa, modelli di vita praticabili anche al di fuori dell’ambito ad essa preventivamente affidato, è solo in piccola parte conseguito un reale cambiamento.

A questo punto voglio parlare più nel dettaglio delle proposte artistiche che si sono concretizzate all’interno dell’evento, lasciandomi libero di scrivere in un futuro prossimo agli articoli le riflessioni emerse durante la tavola rotonda introduttiva.

Come chiosa introduttiva ad entrambi gli interventi voglio usare una citazione da un libro che Carlo Lorenzi scrisse nel 1883.

“Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:

— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo”

(Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Capitolo VII. Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata per sé)

L’intervento di Wang Ruobing

La giovane artista di origini cinesi ha proposto e realizzato due interventi: uno installativo ed uno performativo, con due titoli diversi, ma con la medesima propensione processuale.


A day of waste, il lavforo installativo, è un libro le cui pagine sono state realizzate manualmente a partire dagli scarti di una intera giornata (il 22 ottobre) al mercato ortofrutticolo. La processualità, che teoricamente dovrebbe essere meno evidente in un lavoro installativo che in uno performativo, era calcata dall’esposizione di circa 30 foto che documentavano le diverse fasi di realizzazione del libro (la raccolta, la macerazione, lo sbiancamento, il filtraggio, l’essiccazione, la pressa e la rilegatura).

Swap shop, l’opera performativa, propone l’instaurarsi di un rituale di scambio senza denaro all’interno del mercato. Domenica primo novembre, dalle 11:00 alle 13:00, con la promessa del curatore di ripeterlo per alcune domeniche avvenire,  l’artista ha aperto un banchetto improvvisato al centro del mercato in cui alla gente veniva chiesto di lasciare oggetti usati e scambiarli con quelli trovati nel banchetto. Alla fine della giornata viene misurato in kg la quantità di beni scambiati.

L’intervento di Yak Beow Seah

Anche l’artista di origini malesiane ha proposto e realizzato due interventi: uno installativo ed uno performativo, ma sotto uno stesso titolo: Leftover forever.

La parte installativa utilizzava frutta e verdura del mercato, nonché sedie e tavolini di legno raccolti durante i mesi di preparazione dal curatore presso l’isola ecologica di Ladispoli.

A fronte di elementi spogliati della loro usabilità nell’installazione, nella parte performativa del suo lavoro Yak Beow Seah offre se stesso per qualsiasi tipo di servizio per un’ora a chiunque ne avesse fatto richiesta. In galleria era presente una tabella degli orari da compilare con nome e tipo di servizio richiesto.

In risposta a quest’ultima performance mi piace riportare la testimonianza di un ragazzo, Stefano Azzena ( http://www.myspace.com/stefanoart ), che ho conosciuto poco prima dell’inaugurazione su MySpace, e che ha fruito del servizio dell’artista.

La mostra che mia ha lasciato un ricordo.

Oltre alla mostra c’è stata un iniziativa molto simpatica e cioè l’artista Malese di nome jack si è messo a disposizione dei visitatori per i giorni che hanno  seguito l’inaugurazione ed io che volevo approfondire il discorso sulla messa in opera di un’istallazione composta da frutta fresca ,verdura e complementi d’arredo quali sedie tavoli e quant’altro, ho colto al volo l’occasione e mi sono prenotato un’ora da spendere nel pomeriggio di domenica in sua compagnia.

Praticamente l’ho invitato a casa dei miei genitori (dove ho allestito il mio studio)per un caffè e per mostrargli  alcuni dei miei quadri.

Abbiamo trascorso un’ora molto piacevole parlando dell’originalità delle sue opere e del suo percorso artistico.

Devo dire che la conoscenza di jack per me è stata oltre che una possibilità di confronto ,un ricordo da conservare nell’archivio delle mie esperienze artistiche.

Attività collaterali:

_30 ottobre: “L’arte frutta” – Tavola rotonda

_28 ottobre: Laboratorio artistico di Wang Ruobing per i ragazzi diversamente abili assistiti da Casa Comune 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

GRAZIE A TUTTI


[1] Da questa poesia nascevano alcune considerazioni di Clifford, il cui libro è parte fondante dell’idea curatoriale. Clifford: “Elsie simboleggia, a un tempo, una disgregazione culturale locale e un futuro collettivo. […] Tutti gli splendidi luoghi primitivi sono guastati.
Una sorta di incesto culturale, un senso di fibrillazione storica pervade, guida la fuga delle associazioni. […] è diventato concepibile uno spazio realmente globale di connessioni e dissoluzioni culturali: le autenticità locali si incontrano e si fondono in precari ambienti urbani e suburbani: ambienti che comprenderanno le aree di immigrazione del New Jersey, proliferazioni multiculturali come Buenos Aires, le township di Johannesburg. […]
La risposta di Williams al disordine che [Elsie] rappresenta è complessa e ambivalente.
Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino.
Non c’è un ritorno possibile, non c’è un’essenza da recuperare”.
“É solo a frammenti isolati che/ qualcosa/ viene fuori/ Nessuno/ per testimoniare/ e riparare, nessuno per guidare la macchina”.
Williams <<non evoca Elsie e l’ottusità rurale per celebrare un futuro tecnologico e progressivo […] né si rassegna mestamente al dissolversi delle tradizioni locali dentro la modernità entropica, visione consueta tra i profeti dell’omologazione culturale che piangono i tropici perduti.
Invece, egli asserisce che “qualcosa” ancora “viene fuori”, anche se solo a “frammenti isolati”>> (Clifford1993:15-16) e riflette: “Se l’autenticità è relazionale, non ci può essere essenza se non come invenzione politica culturale” (1993:24).
La questione che si pone qui, non è perciò, se sia più “autentica” la versione tradizionalista o quella new age della religione indiana: entrambe sono il frutto di almeno trecento anni di interazione culturale tra indiani ed europei.

L’arte frutta_Massimo Canevacci

In videoconferenza attraverso Skype dalla Cina, ove in questo periodo insegna, Massimo Canevacci ha portato con sé un ospiote a sorpresa: Yao, uno dei suoi studenti. Quest’ultimo ha fatto un brevissimo intervento, in cinese e in italiano a beneficio degli atisti presenti, in cui ha parleto della novità che l’insegnamento di Canevacci ha introdotto nell’Università.

La mera presenza di Yao, il suo discorso in lingua cinese, e l’utilizzo del canale Skype sono da considerarsi come la migliore delle introduzioni, concettuale e fattuale, a quello che sarebbe stato l’intervento più tradizionalmente basato sul linguaggio logico-verbale.

Il professore ha esordito presentando, a proposito, il concetto di metropoli comunicazionale. Grazie proprio ai mezzi di comuniazione digitale in rete prende corpo una struttura, fluida quanto capillare e persistente, sulla base della quale la metropoli novecentesca irrobustisce la propria tendenza ad agglomerare elementi linguistici e tratti culturali discreti, eterogeneri e (secondo paradigmi classici) tra loro stridenti. Una metropoli sconfinata, fatta di elementi originalmente ripetuti e bricolati. Non è un caso che Canevacci abbia tenuto a sottolineare che il luogo da cui fisicamente si stava connettendo, viene anche chiamato la Venezia cinese.  A proposito della città in cui vive, in una e-mail ha scritto: “l’immagine della bellezza disordinante di Souzhou incrocia una Venezia abitata da napoletani. (…) Venapoli-Souzhou (ma anche Hangzhou o Zouzhuang)”.

Un turbine di falsità e ripetizioni sovverte le nostra abituali visioni lineari, sconnettono e interferiscono con il discorso moderno. Immagini e modelli che si accatastano automaticamente a partire da un tropo filosofico, il richiamo di una esotica Venezia cinese ambienta immediatamente l’uditorio, in maniera prelinguistica, nell’orizzonte teorico che Canevacci vuole condividere andando a parlare di sincretismo culturale e soggettività diasporica, questa sogettiità con cui oggi, avendo essa smarrito il proprio crattere di extrra-ordinarietà, ci troviamo quotidianamente confrontati. Meglio, di cui giorno dopo giorno entriamo sempre più a far parte.

Canevacci ha espresso con chiarezza una delle idee centrali della mostra, vale a dire la volontà di dare voce a questa relativamente nuova soggettività diasporica. Non una esposizione di tipi culturali messi in relazione tra di loro secondo preconcetti occidentali, ma un evento discorsivo tra soggetti da sempre interdipendenti e contaminanti.

Il lento processo di normalizzazione di questa nuova soggettività si accompagna con quello che l’antropologo visuale chiama “reciprocità degli sguardi” (concetto su cui sarà impostata poi la relazione di Luca Simeone). In questo processo di concessione di spazi autonomi allo sguardo altrui, l’antropologia cede qualcosa dalla parte dell’analisi per soddisfare, d’altra parte, un desiderio che ha sin dagli inizi cercato di rimuovere, che è quello che Canevacci ha chiamato il “desiderio della differenza”.

A mio modo di vedere quell’accettazione della soggettività diasporica deve passare dapprima per il canale privilegiato dell’arte, che credo esprima in massima misura una sorta di desiderio di differenziazione, il desiderio di svincolarsi da qualsiasi rappresentatività: oggettuale, politica, personale.

Nella metropoli espansa, continua Canevacci, acquista ancor più rilevanza l’uso del linguaggio eminentemente corporale della musica e la valenza culturale del cibo. Musica e cucina sono ordigni simbolici che offrono un accesso culturale semplificato, in quanto no mediato dall’apparato linguistico e legato a modalità di consumo e produzione immediati, integrazione e convivialità. Musica a cucina sono proposti come modelli privilegiati per aprire uno scambio in quanto forniscono uno schema di condivisione alla portata di chiunque.

Canevacci porta anche un esperimento mentale per illustrare il modello di contaminazione che ha in mente, questo turbine atemporale di tradizioni e di iconografie che si mescolano. Massimo Canevacci ci ha parlato di “scarpe cinesi che tornano di moda”. Prima di lasciare la parola a Canevacci stesso, il quale ha preparato questo scritto in una delle sue lettere dalla Cina, mi venga concesso di notare l’uso ossimorico e provocatorio dei termini tornare e moda. Premesso che l’etimologia del termine lega saldamente la moda al tempo presente, l’affiancarle un verbo (rimarcato con il tono della voce a significare più di quello che si suole solitamente dire) cha la mette in connessione con passato e futuro spoglia la moda di ogni presunta attualità e novità. Quello di novità non è un concetto che possa essere facilmente integrati nel panorama concettuale proposto da Canevacci.

A questo punto sono lieto di riportare uno stralcio di una delle Lettere dalla Cina scritta dal Professore Massimo Canevacci in risposta allo stimolo proveniente dall’invito alla tavola rotonda.

The pure shoes go crazy

Anche di notte i negozi di cellulari – modernissimi con prodotti  differentissimi collocati come gioielli dietro teche trasparenti –  sono aperti e strapieni con impiegati attenti mentre sciamano le persone, specie giovanissime, che scelgono, testano, si informano, provano, indossano come fosse un capo di vestiario e soprattutto comprano. Vicino a un ponte su un canale molto bello, un giovane dall’aria ben educata tipo studente di antropologia e design mette un tappeto per terra e sopra tante scarpe “cinesi”: voglio dire che sono le scarpe classiche che da noi si individuano come appunto cinesi (“cineserie”): basse, di raso, multicolori, con disegni di draghi e fiori, dalle suole sottili. Insomma, “ pure  shoes go crazy”. In un attimo si fermano decine di ragazze sui 15-20 anni, si tolgono le false/vere Nike o Adidas e si misurano felici le  loro babbucce saltellando su un piede solo sopra il tappeto magico. Sarà che le giovani cinesi hanno riscoperto le loro scarpe “cinesi”? Mi immagino che quel giovane le ha importate dall’Italia, magari proprio da Napoli, fatte a mano da cinesi residenti a Gomorra dove  hanno riscoperto  lo stile cinese. O inventato la tradizione, come purtroppo si suol dire …. Souzhou è proprio spettacolare: anche noi andiamo in giro su una barca di legno traforato per i canali, da dove si osserva la vita quotidiana di chi continua a vivere sui bordi popolari dei canali. Donne che lavano i vestiti o persino il mangiare su quell’acqua dubbia, persone che riposano, lavorano, chiacchierano, tutti che fumano, cortili piccoli, finestre che si affacciano indifferenti, porte di legno semifracico, mondezza dappertutto, bambini che corrono, chi mangia e ci vede e saluta. Su una “calle”, alcune ragazze travestite da cinesi classiche, coi vestiti colorati, si fanno fotografare come per giornali di moda, mentre i ragazzi del set aprono ombrelli argentei per riflettere la luce, scattare foto, aggiustare i vestiti o i capelli. Più in là su uno spiazzo c’è un palco dove un uomo e una donna, truccati  e sempre in abiti classici,  cantano pezzi di opera e la gente si ferma, ride, fotografa, applaude. Al prossimo ponte, si affittano vestiti “cinesi” per farsi fotografare da amici o innamorati in stile tradizionale. I ponti sono ad angolo ottuso, proprio come a Venezia, per far passare sotto le barche (nella prima foto si vede una “gondola”). Spesso ogni pietra del ponte per terra ha una forma diversa dalle altre. Niente è uniforme in tale contesto. Anche e soprattutto le marche: le magliette sono strapiene di sigle e stravincono gli Usa… eppure l’italietta disastrata arriva buona seconda. Se le scritte in inglese sono 100, quelle italiane sul 4-5%. Le altre inesistenti. Armani diventa di volta in volta Arnani, Arnami, Anami, Armanigiovantù; Robe di Kappa (di cui ho visto in tv una bellissima sfilata in Cina, con modelle e modelli che alternavano passi di danza con pezzi tai chi o kung fu dai risultati coreografici “originali e ibridi”) stravince e così si vedono Kappa dappertutto ridisegnate e sempre mutanti per la gioia delle case madri. E via di seguito, con D&G dalle variazione inesauribili, mentre le scarpe tipo Nike sono più vere  delle vere, in quanto fatte qua e rivendute in ogni modo e in ogni luogo del mondo.

Link esterni

> Blog di Massimo Canevacci

> La rivista Avatar presentata su Nonleggere.it

L’arte frutta_Alfonso Di Giuseppe

Psicologo che lavora per la cooperativa sociale Casa Comune 2000, è una persona con cui ho già avuto modo di collaborare ad altri progetti di EmEgrEnzE quale Diverse Tacce .

Il rapporto con Casa Comne 2000, in questa occasione (Il mercato della frutta), ha fatto anche nascere un laboratorio artistico in cui Wang Ruobing ha insegnato ai loro assistiti a riciclare la carta ed ottenre, da carta buttata, delle splendide cartoline colorate.

Ultimo, in ordine temporale, dei relatori intervenuti alla tavola rotonda, Alfonso Di Giuseppe è stato anche la persona che una maggiore quantità di stimoli ha ricevuto dagli interventi precednti. In base a questa considerazione si è sentito di cambiare l’intervento che aveva preparato ed improvvisare commentando e criticando gli interventi precedenti. In questo modo, co uno delgi iterventi più vivaci e sentiti si è chiusa una tavola rotonda della durata effettiva di 3 ore e mezza.

Di Giuseppe è uno psicologo che si trova quotidianamente a lavorare sull’integrazione e critica chi ne parla per grandi linee, costruendo su di essa grandi sistemi teorici, senza sporcarsi le mani con al realtà. Lavorando sul campo ti rendi conto che una delel lacune di questi grandi impianti teorici è quello di non rispondere ad una domanda principale: chi integra? Chi si vuole integrare?

Di Giuseppe ha il coraggio di porre come punto di riferimento un soggetto che i colleghi più votati alla teoria non utilizzarebbero se non storcendo il naso: assume come normale punto di partenza quello dell’italiano medio. Da questo assunto egli può dire che lle fasce di popolazione da sostenere non sono solo gli handicappati o gli immigrati stranieri, ma tutte le persone (nemmeno le fasce di persone) svantaggiate (traduzione di handicappate) rispetto alle condizioni di partenza du cui può godere un italiano medio. Come non pensare alla nostra cara e vituperata Costituzione?

Art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Quando si parla di intergazione lo si deve fare a partire da dei parametri, dei modelli e delle vie d’accesso ben precise. Ad esempio, Di Giuspeppe sostiene che non possa darsi integrazione sulla base dellla religione. De relgioni rivlelate, come Islam e Cattolicesimo, sono portatrici di verità assolute, e due verità assolute diverse non si possono integrare. La religione è giusto che rimanga una fede ersonale (tanto più che ricerche psicologiche hanno dimostrato che i fedeli vivono meglio e più a lungo degli atei), ma non è un buon veicolo di integrazione.

Alfonso Di Giuspeppe conclude con una proposta concreta che coincide in parte con la considerazione fatta da me sull’intervento di Canevacci all’inizio della tavola rotonda. Di Giuseppe propone “l’integrazione attraverso l’arte”. L’arte non propone verità assolute, ma illusioni relative. L’arte ha un valore proiettivo che fa sì che nelle opere ognuno possa vederci contenuti differenti in base alla propria individualità.

Opera d’arte come campo potenzialmente sterminato (opera aperta) di verità parziali basate su un’illusione. L’opera, dematerializzata, è anche il luogo in cui possono venir prodotte e integrate istanze culturali e personali più irriducibili.



Link esterni:

> More info su Casa Comune 2000

> Blog de “La Lumaca” – Il notiziario diversamente abile

L’arte frutta_Valeria Patacchiola

Esponente dell’Arci di Rieti, direttirce di un GAS (Gruppo di Acquisto Solidale) ed esperta di decrescita, Valeri Patacchiola descrive, durante il suo intervento alla tavola rotonda “L’arte frutta”, un sistema economico alternativo – non utopico, ma realizzabile da chiunque con piccoli passi e lievi cambiamenti nello stile di vita. Cambiamento radicale che parte dal basso, da microgruppi e piccole azioni quotidiane.

Secondo quanto esposto da Valeria Patacchiola, il PIL, che cresce a prescindere dalla qualità dell’attività economica contabilizzata, non è un buono strumento di misura per la crescita. Calcolando indifferentemente il volume di scambi prodotto da incidenti e disastri (che naturalmente inducono notevole afflusso di investimenti) non può essere assunto come metro di benessere.

Di fronta alla constatazione di fatto, dice la Patacchiola, che su un Pianeta di misure limitate non può darsi una crescita illimitata, non ci possiamo accontentare di una riduzione della crescita in quanto il limite, anche se magari più lentamente, verrà comunque raggiunto (e comunque con effetti disastrosi).

Soluzione, seguendo Serge Latouche, è la decrescita economica, basata su un paradigma etico di solidarietà piuttosto che di profitto.

Link esterni:

> Blog dell’Arci di Rieti