Il mercato della frutta_Contatto, sovversione e reciprocità

In questo articolo intendo collocare il testo curatoriale (la mostra) in un contesto economico globale, spiegando perché ritengo chr tale testo sia una atto di micro-resistenza non contrappositiva al sistema neocapitalistico.

In precedenza avevo già affrontato un aspetto del tema, sollevando alcuni quesiti emergenti dal confornto un po’ superficiale fra l’attività del curatore e quella del manager (articolo correlato, sul Greenness Marketing)

Altro materiale collegato al tema del presente articolo, è quello che ho scritto come documentazione e critica di un’esperienza pregressa: il progetto “Vacanza”, anch’esso con Jack Seah e Wang Ruobing (due degli artisti coinvolti anche ne “Il mercato della frutta”). Esperienza di comunitarismo che si colloca alternativamente al sistema capitalistico tradizionale, ma in modo inclusivo (invito a legere gli articoli correlati, di presentazione di quello che fu il progetto Vacanza e la descrizione dell’opera che Jack Seah realizzò per l’occasione).

La resistenza odierna al capitalismo non può più essere la semplice opposizione conflittuale. Il capitalismo maturo, infatti, si è oggi dissolto nei contenuti e nelle frme grazie ad una tattica mimetica.  In questo senso la società di massa cessa di essere individuata come il risultato diretto del capitalismo spinto ed adattato alla comunicazione; pertanto cessa anche di rappresentare il punto di riferiemento saldo contro il quale  far funzionare il sistema dell’arte e della cosiddetta cultrra alta (leggi l’alto valore economico della cultura e dell’arte). Se da una parte c’è quindi il pericolo di non riuscire più a creare (come avviene da fine 800 al ’68) forme estetiche e modelli sociali dalla fisionomia netta e definita in contrapposizione al modello borgehese (vedi Hauser), sopravviene anche il vantaggio (del quale dobiamo approfittare) di liberarci dall’ipocrisia dell’arte elitaria, della creazione artificiale del valore, il quale viene  da lungo tempo istituito e reinventato attraverso la narrazione dell’autenticità e dell’originalità (vedi Krauss, Clifford, ma anche i testi in cui Abruzzese fonda la sua teoria sociale-massmediale, soprattutto “Le forme estetiche” del 1973).

The age of indolence - Foto by Emanuele Sbardella
The age of indolence - Foto by Emanuele Sbardella

Rispetto a questo argomento Slavoj Žižek sembra essere d’accordo con Abruzzese. Quando il filosofo sloveno afferma , ad esempio, che sotto molti punti di vista è giustificato chiamare Deleuze l’ideologo del tardo capitalismo. “Brian Massumi – scrive Žižek – has very clearly formulated this deadlock, which is based on the fact that today’s capitalism has already overcome the logic of totalizing normality and adopted the logic of erratic excess” (Žižek, in Blow against the Empire?, p. 128, in Manifesta Journal).

Ciò fa si che l’atteggiamento proposto da Naomi Klein nel best-seller “No logo” sia oggi inattuale (oltre che inattuabile). Il presupposto della Klein era proprio la struttura solida e mastodontica del capitalismo, al quale faceva gioco il processo di centralizzazione e omologazione, di cui si faceva promotore. Ma – si domanda Žižek – “is not the latest trend in corporate management itself «diversify, devolve power, try to mobilize local creativity and self-organization?»” (p. 129).

Una volta individuata la convergenza tra le dinamiche del potere capitalistico e delle forze di resistenza, come continuare  resistere? A cosa, esattamente? Contro quali oggetti, contro quali simboli? Il capitalismo di oggi, infatti, non si basa più su sull’accumulazione di valore, che non viene perseguito più attraverso la produzione di oggetti. Esso si basa sull’acquisizione di prestigio (un ritorno alla società di corte descrita da Elias?) attraverso la creazione di ambienti emotivi (brand) e sulla promessa della creazione mitologica di una tribù. “The production of social relation is the immediate end/goal of production”. Il neocapitalismo si basa, quindi, sula produzione e sul modellamento delle relazioni sociali (ma ancora sulla distinzione e sul privilegio, piuttosto che sull’uguaglianza e il rimescolamento). Quando dico, quindi, che il testo della mostra si infila fra le maglie di quel tessuto di significati resistenti, intendo dire che con essa non solo si intende cavalcare e voltare a proprio favore la (probabilmente solo formale, simulata) apertura alla diversità del capitalismo per rimescolare le disuguaglianze. La resistenza da porre non si fa più debole, bensì più radicale nell’affermare la possibilità e la necessità di un sistema non economico di relazioni che trescenda la piattaforma materiale della produzione e delle scambio di merci. L’asse di attenzione si sta spostando, come abbiamo visto, dalla produzione di oggetti alla produzione di relazioni. In questa produzione di relazioni (e non piu nella produzione di oggetti; vale a dire di opere) occorre riaffermare la primari età dello scambio e del contatto.

Abramovic, Imponderabilia, 1977
Abramovic, Imponderabilia, 1977

La reciprocità asimmetrica vaticinata da Clifford nell’ambito di pratiche etno-museografiche non è una relazione di eguaglianza, bensì una tensione in grado strutturare finzionalmente zone di contatto, cronotopi in cui localizzare movimenti reciproci di persone, di merci e di idee.

A mio parere l’unico modo per alzare la posta in gioco ed inscenare una mostra in cui le Porte siano davvero Aperte, non significa solo abbandonadre il punto di vista erucentrcio sullo sviluppo e sugli approdi dell’arte contemporanea globale. Le possibilità sovversive derivano da un tipo di reciprocità che non è compendiabile in istituizoni quali quella museale.

Una singola esibizione, concentrata in pochi giorni ma priva di confini temporali ben precisi, offre un modello più snello per adottare tattiche di resistenza più adeguate. Un museo potrà anche evitare di esporre ed allestire pacchetti esoticizzanti, ma difficilmente potrà fare  ameno di far sentire la forza della propria sede, della propria storia, della propria burocrazia e della propria decisionalità. Eisistono, è vero, assetti museali più leggeri di quanto la tradizione non imponga, ma la tendenza mi sembra dirigere quantomeno verso una reciprocità offerta (se non ostentata o negata), e mai bilateralmente contrattata. L’approccio antropologico della mostra “Il mercato della frutta” mi permette, invece, di considerare l’arte contemporanea con un taglio culturalista che espunge  ogni concretizzazione di autorialità (nonché ogni residuo metaficio). Trattando l’arte come cultura, o meglio, come ambito di fermentazione culturale privilegiato, come mercato di idee e palco per il dialogo, non ha alcune senso spettacolarizzare il prodoo culturale altrui, affibbiargli valori come autenticità e originalità al fine di tesaurizzarli e dargli un senso elevato dal punto di vista europeo.

Il contatto che avviene in codesto scenario non può essere levigato e scevro di collisioni. Mancano le gerarchie che furono stabilite dall’ordine Culturale, mancano le nette delimitazioni e le etichette con cui si aveva gioco facile a dedurre il valore.

La straniazione, che l’antropologia cliffordiana non tende più ad addomesticare, assume in arte la forma perturbante di una relazione che non cessa di confondere; di una integrazione che non cessa di dividere.

Il curatore , come l’antropologo, si sente parte del gruppo con cui lavora, ma resiste, e le dinamiche (anche amicali) che si instaurano non cessano di rivelare la differenza. Questa è la diferenza che non può essere venduta in cambio di piatte relazioni monetarie e che non può essere cancellata dall’omologazione che il capitalismo impone a diversi livelli della vita umana (dal lavoro produttivo al consumo producente). Qesta differenza che fa sì che si possa vivere compiutamente fra gli uomini pur avendo come fine il raggiungimento dello stato (o la consapevolezza di questo raggiungimento) di “straniero tra gli uomini” (faccio riferimento alla mie considerazioni su Isacco per l’ambiguità delle relazioni).

Le reciprocità differenziante che si può opporre come resistenza al neocapitalismo si basa s una procedura riclassificante tipicamente postmoderna che mette in discussione non solo i risultati, ma le fonti stesse che legittimano il nostro agire e il nostro abituale modo di concettualizzare il rapporto fra culture, il rapporto fra classi ed il rapporto fra individui (intra e infra individuale).

La prima topologia da smantellare se si vuole procedere nella direzione di una reciprocità differenziante è quella, pericolosamente incombente nel caso della mostra “Il mercato della frutta”, di Oriente-Occidente. Slavoj Žižek dà, ad esempio, per scontato che a questi due blocchi appartengano due tradizioni totalmente separate e non concomitanti. A conclusione del suo già citato testo sul neocapitalismo, egli si appropria di una distinzione concettuale che, per quanto euristica e strumentale, non è accettabile.

“In the Jewish tradition, the Divine Mosaic Law is experienced as something externally violently imposed, contingent and traumatic – in short, as an impossible/real Thing that «makes the law»” (p. 135). Per il filosofo l’equazione è semplice ed impeccabile: la tradizione giudaico cristiana sta all’Europa come il new age all’Asia!

In contrast to the New Age attitude, which ultimately reduces my Other/Neighbor to my mirror image or to the means in the path of my self-realization (like Jungian psychology, in which the other persons around me are ultimately reduced to externalization/projection of the different disavowed  aspects of my personality), Judaism opens up a tradition in which an alien traumatic kernel forever persists in my Neighbor – the Neighbor remains an inert, impenetrable, enigmatic presence that hystericizes me.At the very moment when, at the level of «economic infrastructure», ‘European’ technology and capitalism ere triumphing worldwide, at the level of «ideological superstructure», the Judeo-Christian legacy is threatened in the European space by the onslaught of New Age ‘Asiatic’ thought, which […] is establishing itself as the hegemonic ideology of global capitalism.

Therein resides highest speculative identity of the opposites in today’s global civilization: although «Western Buddhism» presents itself as the remedy against the stressful tension of the capitalistic dynamic, allowing us to uncouple and retain inner peace and Gelassenheit, it actually functions as its perfect ideological supplement.

If Max Weber were alive today, he would certainly write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, one that would be titled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism.

Per dimostrare quanto, nonostante l’apparente ovvietà (ed eventuiale utilità concettuale) del’argomentazione, l’equazione proposta dal filosofo sloveno non sia accettabile, ci basterà osservare il semplice fatto che Isacco di Ninive appartiene a pieno titolo alla tradizione giudaico cristiana occidentale, e che eppure è proprio a partire dalla sue considerazioni che nello scorso articolo ed in questo presente ho potuto dedurre alcuni elementi concettuali perfettamente calzanti per descrivere pratiche artistiche contemporanee apertamente influenzate da quello stesso filone filosofico che viene genericamente nominato “orientale”.

La questione sui diritti umani, benché non totalizzante ed universlae, appare a Žižek come tipicamente moderna e contrapposta alla tradizione giudaico cristina. I diritti uamni mettono in fscusisone l’assolutesza, l’esternalità e la radicalità dei dieci comandamenti. Sono quasi il diritto di violare i comandamenti . “of course, human rights do not directly condone the violation of Commandaments: the point is just that they keep open a marginal «gray zone,» which is supposed to remain out of the reach of (religious or secular) power” (136).

Il mercato della frutta cerca di rigettare ogni orientalismo ed ogni occidentalismo, al fine di creare un contesto espositivo che non solo faccia sfoggio delle armonie e dei contrappunti, ma che anche eliciti una reciprocità che non disdegna di ostentare le dissonanze.

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