Art critic_Cesare Pietroiusti, Jacopo Seri, Filipa Ramos – Una lezione (Fluxus Biennal/After Fluxus)

Iniziamo con alcune informazioni introduttive.

Il resoconto vero e proprio è scritto in bianco sotto questi tre paragrafetti scritti in grigio.

(…per chi proprio non avesse “voglia né di leggere o studiare”… almeno non perdetevi il video che ho fatto durante gli ultimi 5 minuti della performance – è posto alla fine dell’articolo)

Cosa vi accingete a leggere?

Più che una critica, un resoconto dell’esperienza che io ho fatto di una performance di Cesare Pietroiusti. Questa critica informale e soggettiva è arricchita da foto e video che ho registrato dall’interno ed è accompagnata da alcuni spunti di riflessione che questa esperienza ha suscitato in me.

La performance si è svolta nello Spazio Risonanze dell’Auditorium Parco della musica di Roma, fra le ore 21:30 e mezzanotte del 26 febbraio 2010, ed era intitolata “Una lezione”. Si contestualizza nell’ambito della manifestazione “Fluxus Biennal”, a cura di ABO – Achille Bonito Oliva.

> Comunicato stampa sul sito dell’Auditorium

Premesse metodologiche

Il mio stile critico è fortemente influenzato da una duplice partecipazione. Innanzitutto Cesare Pietroiusti è un amico ed un artista con il quale ho già lavorato. Secondopoi, per l’occasione, io non ho solo visto la performance dall’esterno, ma ho partecipato con altre 40 persone circa alla performance nel ruolo di discente-bevitore, rispettando le regole imposte dall’artista.

Trattasi, quindi, di osservazione partecipante in cui lo sguardo critico oggettivo cede sotto più fronti il passo ad uno sguardo critico appannato, fazioso e disinvolto.

Dati introduttivi

L’idea della lezione prende spunto dalla volontà di Iacopo Seri di dare forma concreata (extralibresca) ad un testo di Deleuze e Guattari, “Millepiani”, che è stato appunto il testo di cui si è parlato durante la lezione, con cesare Pietroiusti come Professore e Filipa Ramos come assistente.

Cesare, Jacopo e Filipa
Cesare, Jacopo e Filipa

Oltre alla presenza dei tre artisti, l’area della performance era occupata da altri due gruppi di persone: i discenti (un gruppo di una quarantina di persone che si erano iscritte tramite email ed avevano ricevuto dispense da studiare e che avrebbero dovuto bere, come anche gli artisti, un litro di vino durante la lezione) e gli osservatori (un gruppo più folto composto per lo più da critici, galleritisti e giornalisti. Ad ogni modo persone interessate a guardare la performance dall’esterno, o che non erano rientrati nella selezione).

I tre artisti erano disposti al centro, vicino ad una lavagnetta. In una prima fascia attorno agli artisti erano disposti 5 tavoli rotondi sui quali abbiamo trovato tovaglioli, pane scuro, fogli, penne e bicchieri. La bottiglia di vino veniva consegnata personalmente al momento dell’accredito. Il vino poteva essere bianco o rosso, selezionato al memento del’iscrizione, ed era di ottima qualità. Io ho ricevuto un Barolo offerto dall’azienda vinicola Rainaldi. Tttto il vino era garantito senza solfati – come ha tenuto a specificare Cesare – quindi “eventuali mal di testa non sarebbero stati da attribuire alla cattiva qualità del vino, ma alla forza dei concetti che si sarebbero andati ad affrontare”.

Resoconto

Mentre mi recavo all’Auditorium approntavo il design del mio arredamento interno cogliendo qua e là qualche assaggio di un Bukowsky che avevo portato meco.

In fin dei conti sarebbe stato sufficiente mimetizzarsi con il lerciume del treno in cui stavo viaggiando.

Ma fare proprio il lezzo del quotidiano pendolarismo è assai meno vanaglorioso che godere del lezzo distillato da Charles. Così dicono. E così sia.

Leggo:

“L’uomo è la fogna dell’universo”

Alzo gli occhi. Li riabbasso subito per paura di continuare a non trovare nulla da eccepire.

Continuo a leggere:

“Non riesco a affrontare la vita, quando sono sobrio”

Alzo gli occhi. Stavolta chiudo i libro con la scusa di non voler arrivare troppo presto al dunque. In fin dei conti la scelta di portare con me proprio Mirster B. (e non sto parlando del corrotto) era tesa a condizionare il mio approccio alla performance verso un lassismo che ritenevo più adeguato della mia usuale continenza, ma questo condizionamento era troppo lapalissiano. Posso accettare di venir condizionato solo se prima mi convinco a far finta che non mi si stia condizionando. Ma questo era troppo pacchiano per uno a cui piace illudersi di non essere facilmente condizionabile. La scelta di farsi accompagnare in treno da Bukowsky, quindi, si è rivelata infruttuosa e controproducente, in quanto anziché aprirmi all’accettazione di uno stato di alterazione mi ha alterato ed ha reso più arcigne le mie misure difensive. Il mio arredamento interno non stava sviluppandosi secondo i piani, e forse il mio stesso amico Cesare non avrebbe voluto che io cercassi di modellare la mia indole per via di un autoinganno.

Pertanto, poche righe di Bukowsky hanno presto lasciato spazio a Deleuze: vale a dire il gorsso delle dispense fornite dall’artista. Riecco affiorare in me il critico diligente, che prepara l’arredamento interno con perfetto stile razionalista (ma con spazi lasciati all’estro e all’imprevisto). In fin dei conti è meglio partire da una solida diligenza, piuttosto che da un conciliante lassismo, se si intende affrontare un’azione collettiva corrosiva del fisico e della morale. Lo scopo di tale azione sarebbe in gran parte vanificato se, agendo, non incontrasse resistenza alcuna.

Tuttavia il viaggio in treno è breve. Dopo aver riposto Bukowsy ed aver rapidamente sfogliate le dispense che già avevo marcato con note e sottolineature, questi pensieri sulla resistenza mi hanno frettolosamente accompagnato a guadagnare la banchina della stazione. Oramai non c’era più tempo per rifinire il mio arredamento interno, perché di lì a poco il mondo mi si sarebbe fatto incontro ed io sarei stato troppo affaccendato a fare gli onori di casa. All’auditorium incontro alcune amiche, nessuna delle quali parteciperà come discente-trangugiatricedivino. Insieme vediamo parte della mostra allestita su Maciunas dopodiché prendo congedo per andare a ritirare il mio litrozzo di vino. Nei loro sguardi leggo l’eccitazione per la goliardìa della sfida. Loro sanno meglio di me quanto poco questa sfida si confaccia al mio tipo. Io me ne dimentico e procedo piuttosto meccanicamente versio la sede in cui sorge l’estemporaneo tempio di Bacco. Sono solo leggermente innervosito dal cogliere nel mio atteggiamento una certa dose di intellettuale tracotanza. Ma fa parte degli armamenti di cui dispongo per la difesa. Me lo perdono.

Faccio passare la mia fotocamera fra i tavoli e vengo fotografato
Faccio passare la mia fotocamera fra i tavoli e vengo fotografato

Consapevole che alla fine della performance le mie amiche avranno un punto di vista diverso dal mio, riesco anche ad affrontare con leggerezza il pericolo della perdita di informazioni oggettive. Sostenuto dalla volontà di confrontare nei giorni a venire i diversi tipi di scritti che risulteranno da esperienze eteronegnee rispetto ad una stessa azione, mi seggo al tavolo centrale e sistemo le mie carte, oramai convinto di non poter fare più alcunché di sbagliato. Sovrappensiero, ancora non toccato dal vino, mi ritrovo con la penna nera leggermente inclinata verso l’alto nella mano destra e lo sguardo nel vuoto mentre il curatore, Achille Bonito Oliva (d’ora in avabti ABO), prende la parola per introdurre la performance. Sin dall’inizio la sua presenza appare come un’intrusione. Rappresenta un’istanza del potere che Deleuze e Pietroiusti vorrebbero scardinare, effettua interventi scontati ed autocompiacenti. Soprattutto non berrà nemmeno un goccio di vino, ma si sentirà autorizzato ad adeguarsi ai comportamenti sregolati che sarebbero andati normalmente assumento gli altri partecipanti, via via sempre più ebbri. Non stà lì come un amico, né finge di esserlo. Questo perché deve dimostrare di stare su un altro piano, ma di sapersi, allo stesso tempo, adeguare. Vero niente.

Pietroiusti sta al gioco, ma appena prende la parola si scaldano gli animi. L’attenzione è catalizzata sulle sue presenti parole ma ancor di più sulle future non-parole che riuscirà a far circolare.

D’ora in poi il resoconto potrebbe essere riassunto in poche righe: quelle necessarie per dire che l’artista, secondo copione, ha mostrato ottima competenza nell’enucleare l’evoluzione del pensiero rizomatico e i temi portanti di Millepiani. Sempre secondo copione, egli è riuscito a mantenere più alta di tutti gli altri la soglia di attenzione e lucidità, dimostrando – punto questo fondamentale, che riprenderò più in là – si saper reggere il vino.  Di fronte a palesi sragionamenti o a presunte acrobazie concettuali da parte dei membri dell’uditorio lui ha saputo mediare con competenza ed ironia, senza mai lasciarsi vincere dal vino come giustificazione all’accantomanento della ragione. Sarebbe quindi del tutto superfluo fare una descrizione del contenuto manifesto della lezione (basti leggersi le dispense – nessun intervento del pubblico è parso meritevole di nota, e per lo più  tutti noi denotavamo principalmente la volontà di certificare la nostra presenza). Ciò che ritengo più utile fare è cercare di analizzare i contenuti latenti della performance e i suoi orizzonti teorici.

Io sono del parere che ci siano almeno tre aspetti da prendere in considerazione per poter interpretare l’opera proposta da Jacopo, Filipa e Cesare:

_Aspetto Morale

_Aspetto Gneoseologico

_Aspetto Estetico

Cesare Pietoriusti regge bene il vino
Cesare Pietoriusti "regge bene il vino"

Aspetto Morale

Inizio dall’aspetto morale, quello che più pressione esercitava sulla mia persona nell’immediata vigilia della performance in quanto:

– assumendo io una osservazione partecipante rischiavo di perdere lo sguardo critico (come dettoin precedenza: di lasciare che lo sguardo critico si annebbiasse);

– cercando io di condurre quotidianamente una vita salutare rischiavo di contravvenire a direttive mediche e morali secondo le quali sono solito scegliere quando sono chiamato ad agire secondo coscienza e responsabilità.

Filosofi come Herbart, Wittgenstein e Santayana hanno considerato molto da vicino i rapporti intercorrenti fra etica ed estetica. Lo hanno fatto considerando come primaria la categoria della valutazione. Questa non è un semplice giudizio intellettuale, bensì un’operazione che coinvolge l’individuo fin dalle sue più profonde risorse emotive. Fra i filosofi citati, è forse Santayana quello che a costruito un modello teorico che meglio si adatta all’analisi dell’aspetto morale dell’opera di Pietoriusti. Secondo Santayana l’estetica di distingue dall’etica in quanto i giudizi estetici sono affermazioni positive di un valore, laddove il giudizio morale nasce e si sviluppain relazione alla percezione del male. Mai come nella performance di Pietroiusti i due livelli si scontrano, offrendo una duplice risoluzione:

– affermazione del piacere del bere (e del sapere)

– apertura di una parentesi che consenta l’eccesso (e per contrasto giustifiche la morale al di fuori di quella ce è la zona franca dell’arte)

Il frutto della vite, infatti, infonde energia vitale… ma in modo ambiguo è anche dispensatore di morte (in modo simile alle caratteristiche di Dioniso). Tuttavia l’atto del bere, nel suo eccesso, viene racchiuso in un ambito performativo, quello artistico, che arricchisce e delimita allo stesso tempo l’azione in una sfera della semiotizzazione umana, che in questo modo fornisce all’azione una  cornice rituale. Come, ad esempio, tra i pitagorici, l’atto del bere era considerato sacro e necessario all’attività filosofica, ma solo in quanto incluso in un logaritmo di prassi altamente codificato. Solo se entra a far parte di un rito, l’atto può essere giustificato moralmente, legittimato mitologicamente ed offrire a tutti i commensali un beneficio condiviso.

Aspetto gneoseologico

Dioniso portò la cività fra gli uomini, oltre al vino.Questa bevanda, vero nettare degli dèi fra i greci, è considerata fonte di verità (fu il poeta greco Alceo a coniare la locuzione che noi usiamo nella versione latina: in vino veritas). I riti dionisiaci non erano solo orge tese all’appagamento sessuale. L’eccitazione dionisiaca mirava ad una forma più alta di conoscenza.

“La mania prodotta dall’assunzione della bevanda di Dioniso (autentico stato di perdita della ragione che si manifesta in una ossessione indomabile) corrisponde ad una perfetta visione dell’oggetto desiderato” (Donà). Secondo tutta la tradizione dei simposi e di tutti tipi di libagioni propedeutiche al filosofare, possiamo considerare il desiderio di vedere o assuemre l’oggetto desiderato (il sapere) attraverso la simbologia della vite e del vino. Nell’introiettare quell’oggetto che è altro da sé, il filosofo deve saperlo integrare, subendo sì un’alterazione, ma riuscendo a mantenere una certa individualità psicologica e stilistica che permetta di dare forma ed oggettivare l’alterazione registrata.

Si consideri Socrate, quel grande amatore della carne e del sapere. Un ricercatore instancabile  che il mito descrive come un bevitore che, pur non mettendo mai freno al vino, mai nessuno ha potuto vedere ubriaco.  L’inestinguibilità della sua curiosità filosofica (so di non sapere e sempre più lo bramo e ricerco), fa coppia con l’inestinguibile sete di vino. Mai perso coscienza, Socrate dimostra di saper “reggere il vino” come nessun uomo. Allo stesso modo la sua ricerca filosofica che sconfina oltre i limiti dell’uomo, che necessariamente deve arrestarsi su un certo numero di convinzioni, scrivere libri, affermare i propri risultati. In questo modo, questa figura eccezionale, può inaugurare la ricerca di quella verità che ama nascondersi. La verità, celata, può assumere mille forme e, contro ogni tentativo di fissazione individuale, non puà appartenere a nessuno.

L’operazione artistica proposta da Pietroiusti è schiettamente postfilosofica in quanto attiva una messa in scena collettiva e disequilibrata del sapere filosofico che si radicalizza seguendo un percorso che parte dai non-libri di Socrate, che passa attraverso il non-libro dei vari Deleuzes e Guattaris e giunge ad esplodere in una forma extra-libresca ed extra-logica.

> Per approfondimenti sull’estetica conoscitiva secondo Perniola, si legga questo mio articolo.

Aspetto estetico

Una questione che sembrerebbe rientrare nell’aspetto morale, sarà invece da considerarsi prettamente estetica, vale a dire connessa con con la tematica del sentire.  Di certo è morale il rischio nel quale con il vino si rischia di incorrere: lo smarrimento della libertà e dell’autodeterminazione. Ma, come vedremo, questa liberà ha s che fare con i limiti di un sentire organico che si espande.

Come sappiamo già dai tempi di Aristotele l’alcol non può essere considerato un attenuante nel caso di un’azione illecita compiuta sotto il suo influsso. Costituisce, bensì, un aggravante. in quanto l’azione illecita è stata preceduta da dalla colpa di essersi abbandonato all’ebbrezza.

Nel campo estetico, tuttavia, questo rafforzamento, giova alla ricerca di un sentire meno parcellizzato e slegato dalla dialettica soggetto desiderante/oggetto desiderato. Se, infatti, come dice Fichtel’uomo è libero soltanto se lo vuole – “se egli non è libero significa che non vuole ma che viene spinto” – tuttvaia esiste lapossibilità che, riconosciuta la libertà come un’utopia irraggiungibile e persino non desiderabile, l’uomo voglia essere spinto! Il voler esserespinto, che in ambito morale viene condannato come perdita di libertà ed abbandono alla necessità, in ambito estetico coincide con quella tensione verso il sentire inorganico che Perniola descrive proprio a partire dal concetto di Corpo senza Organi di Deleuze (contenuto nel testo in esame, “Millepiani”).

> Vedi altre foto

Il mercato della frutta_Resoconto

Many thanks to Ruobing, Yak, Sai e Mei: artists, technicians and first of all real good friends.

Grazie ad Alessandro, Alessio, Marco, Ralla, Sarah e Titti: assistenti, professionisti e persone importanti nella mia vita.

Grazie ad Alfonso, Andrea G., Cheikh, Luca, Maxx e Valeria: relatori presenti, relazioni future e compagni di strada.

Grazie ad Andrea Z., Eloisa, Francesca e l’Imam di Ladispoli: personaggi pubblici, organizzatori e persone che hanno creduto in me.

Infine – e soprattutto – grazie ai lavoratori del mercato e alla mia famiglia. Entrambi questi gruppi, in modi diversi, hanno ospitato gli artisti trattandoli come loro membri ed hanno insegnato a me che il lavoro viene dalla terra e alla terra torna.

Questi ringraziamenti giungono alla fine di un percorso, che non è veramente finito e che ha visto la sua fase culminante nella realizzazione dell’evento “Il mercato della frutta – The pure products of  Italy go crazy”. Questo percorso era iniziato con Elsie, una ragazza americana con “una goccia di sangue indiano” cui era dedicata la poesia di Williams The pure product of America go crazy (1923) [1].

Giunto a questo punto conclusivo vorrei tracciare un parallelismo ed iniziare il resoconto citando un passo in cui i versi di Pasolini (La Terra del Lavoro) innalzano la figura di un’anonima donnetta del centro Italia a simbolo universale per la desolazione della condizione umana.

Una donnetta, di Fondi o Aversa, culla
una creatura che dorme nel fondo
d’una vita d’agnellino, e la trastulla

– se si risveglia dal suo sonno
dicendo parole come il mondo nuove –
con parole stanche come il mondo.

Questa, se la osservi, non si muove,
come una bestia che finge d’esser morta;
si stringe dentro le sue povere

vesti e, con gli occhi nel vuoto, ascolta
la voce che a ogni istante le ricorda
la sua povertà come una colpa.
[…]
Si confondono la pioggia e il sole
in una gioia ch’è forse conservata

– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:

vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,

e anche la tua pietà gli è nemica.

In questa donnetta, il lontano richiamo della Terra che si trovava in Elsie commisto a mille altre infiltrazioni, è amplificato e diviene quasi un rapporto di simbiosi. Non si tratta di un ritorno ad un autentico quanto bucolico invito a rivalutare passati riferimenti rurali, ma un consapevole sguardo al futuro della Terra. La donnetta non solo un simbolo universale per la desolazione, ma è soprattutto un’avanguardia per un movimento di totale soppiantamento del sé, di oltrepassamento dei soprusi e ridicolizzazione delle ingiustizie. In questa donnetta e nel resto dei poveri viaggiatori è custodito un messaggio di profonda e consapevole rassegnazione, il quale emerge da tutto l’amalgama contemporaneo e procede oltre il frammischiarsi di tratti organici e culturali sulla superficie di questo pianeta

Ciò che ai miei occhi si è palesato è una realtà in cui la connaturata curiosità e propensione all’altro viene spesso soffocata da meschinità indotta da ristrettezze economiche e da modelli culturali biechi. Lo scambio non avviene se non (per lo più) sulla base di convenienze personalistiche. Le poche persone di parola vengono impedite nella realizzazione di fatti da persone fatte di parole e scarsamente intenzionate a mettersi veramente in gioco.

Si può dire che l’evento abbia riscontato il suo maggiore successo nel coinvolgimento sincero di alcuni lavoratori al mercato e di pochissimi esperti nel mondo dell’arte contemporanea. Il suo maggiore insuccesso può esser misurato di fronte alle aspettative di una risposta collettiva e partecipata.

Al mio tentativo, quello di espandere antropologicamente la definizione di arte e di proporre, attraverso questa, modelli di vita praticabili anche al di fuori dell’ambito ad essa preventivamente affidato, è solo in piccola parte conseguito un reale cambiamento.

A questo punto voglio parlare più nel dettaglio delle proposte artistiche che si sono concretizzate all’interno dell’evento, lasciandomi libero di scrivere in un futuro prossimo agli articoli le riflessioni emerse durante la tavola rotonda introduttiva.

Come chiosa introduttiva ad entrambi gli interventi voglio usare una citazione da un libro che Carlo Lorenzi scrisse nel 1883.

“Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:

— Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo”

(Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Capitolo VII. Geppetto torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover’uomo aveva portata per sé)

L’intervento di Wang Ruobing

La giovane artista di origini cinesi ha proposto e realizzato due interventi: uno installativo ed uno performativo, con due titoli diversi, ma con la medesima propensione processuale.


A day of waste, il lavforo installativo, è un libro le cui pagine sono state realizzate manualmente a partire dagli scarti di una intera giornata (il 22 ottobre) al mercato ortofrutticolo. La processualità, che teoricamente dovrebbe essere meno evidente in un lavoro installativo che in uno performativo, era calcata dall’esposizione di circa 30 foto che documentavano le diverse fasi di realizzazione del libro (la raccolta, la macerazione, lo sbiancamento, il filtraggio, l’essiccazione, la pressa e la rilegatura).

Swap shop, l’opera performativa, propone l’instaurarsi di un rituale di scambio senza denaro all’interno del mercato. Domenica primo novembre, dalle 11:00 alle 13:00, con la promessa del curatore di ripeterlo per alcune domeniche avvenire,  l’artista ha aperto un banchetto improvvisato al centro del mercato in cui alla gente veniva chiesto di lasciare oggetti usati e scambiarli con quelli trovati nel banchetto. Alla fine della giornata viene misurato in kg la quantità di beni scambiati.

L’intervento di Yak Beow Seah

Anche l’artista di origini malesiane ha proposto e realizzato due interventi: uno installativo ed uno performativo, ma sotto uno stesso titolo: Leftover forever.

La parte installativa utilizzava frutta e verdura del mercato, nonché sedie e tavolini di legno raccolti durante i mesi di preparazione dal curatore presso l’isola ecologica di Ladispoli.

A fronte di elementi spogliati della loro usabilità nell’installazione, nella parte performativa del suo lavoro Yak Beow Seah offre se stesso per qualsiasi tipo di servizio per un’ora a chiunque ne avesse fatto richiesta. In galleria era presente una tabella degli orari da compilare con nome e tipo di servizio richiesto.

In risposta a quest’ultima performance mi piace riportare la testimonianza di un ragazzo, Stefano Azzena ( http://www.myspace.com/stefanoart ), che ho conosciuto poco prima dell’inaugurazione su MySpace, e che ha fruito del servizio dell’artista.

La mostra che mia ha lasciato un ricordo.

Oltre alla mostra c’è stata un iniziativa molto simpatica e cioè l’artista Malese di nome jack si è messo a disposizione dei visitatori per i giorni che hanno  seguito l’inaugurazione ed io che volevo approfondire il discorso sulla messa in opera di un’istallazione composta da frutta fresca ,verdura e complementi d’arredo quali sedie tavoli e quant’altro, ho colto al volo l’occasione e mi sono prenotato un’ora da spendere nel pomeriggio di domenica in sua compagnia.

Praticamente l’ho invitato a casa dei miei genitori (dove ho allestito il mio studio)per un caffè e per mostrargli  alcuni dei miei quadri.

Abbiamo trascorso un’ora molto piacevole parlando dell’originalità delle sue opere e del suo percorso artistico.

Devo dire che la conoscenza di jack per me è stata oltre che una possibilità di confronto ,un ricordo da conservare nell’archivio delle mie esperienze artistiche.

Attività collaterali:

_30 ottobre: “L’arte frutta” – Tavola rotonda

_28 ottobre: Laboratorio artistico di Wang Ruobing per i ragazzi diversamente abili assistiti da Casa Comune 2000

 

 

 

 

 

 

 

 

GRAZIE A TUTTI


[1] Da questa poesia nascevano alcune considerazioni di Clifford, il cui libro è parte fondante dell’idea curatoriale. Clifford: “Elsie simboleggia, a un tempo, una disgregazione culturale locale e un futuro collettivo. […] Tutti gli splendidi luoghi primitivi sono guastati.
Una sorta di incesto culturale, un senso di fibrillazione storica pervade, guida la fuga delle associazioni. […] è diventato concepibile uno spazio realmente globale di connessioni e dissoluzioni culturali: le autenticità locali si incontrano e si fondono in precari ambienti urbani e suburbani: ambienti che comprenderanno le aree di immigrazione del New Jersey, proliferazioni multiculturali come Buenos Aires, le township di Johannesburg. […]
La risposta di Williams al disordine che [Elsie] rappresenta è complessa e ambivalente.
Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino.
Non c’è un ritorno possibile, non c’è un’essenza da recuperare”.
“É solo a frammenti isolati che/ qualcosa/ viene fuori/ Nessuno/ per testimoniare/ e riparare, nessuno per guidare la macchina”.
Williams <<non evoca Elsie e l’ottusità rurale per celebrare un futuro tecnologico e progressivo […] né si rassegna mestamente al dissolversi delle tradizioni locali dentro la modernità entropica, visione consueta tra i profeti dell’omologazione culturale che piangono i tropici perduti.
Invece, egli asserisce che “qualcosa” ancora “viene fuori”, anche se solo a “frammenti isolati”>> (Clifford1993:15-16) e riflette: “Se l’autenticità è relazionale, non ci può essere essenza se non come invenzione politica culturale” (1993:24).
La questione che si pone qui, non è perciò, se sia più “autentica” la versione tradizionalista o quella new age della religione indiana: entrambe sono il frutto di almeno trecento anni di interazione culturale tra indiani ed europei.

Il mercato della frutta_L’arte frutta!

L’arte Frutta

30 ottobre 2009, dalle 15:30 alle 19:30

Sala convegni della Biblioteca comunale di Ladispoli

Tavola rotonda con la quale si è inteso discutere apertamente e pubblicamente i temi portanti della mostra “Il mercato della frutta”, che si sarebbe inaugurata il giorno successivo.

Gagliarducci, Dieng e Simeone
Gagliarducci, Dieng e Simeone

Esperti provenienti da discipline e campi di esperienze eterogenei sono intervenuti alimentando una discussione stimolante e partecipata.

Nell’introdurre l’approccio curatoriale ed alcuni temi messi in gioco nella mostra (consultabili nella curatorial dashboard), ognuno dal suo punto di vista, hanno preso parte:

Massimo Canevacci (docente di Antropologia culturale in varie Università del mondo)

Andrea Gagliarducci (filosofo del linguaggio e vaticanista)

Cheikh Dieng (segretario generale dell’associazione La casa della pace)

Luca Simeone (interaction designer e antropologo)

Valeria Patacchiola (rappresentante dell’Arci di Rieti)

Alfonso Di Giuseppe (psicologo e rappresentante della cooperativa sociale Casa Comune 2000)

Ad ogni nome c’è il link al relativo intervento. Premetto che sono riproduzioni fatte in base unicamente ai miei appunti personali, quindi non possono essere considerate resoconti oggettivi. Mi scuso di avere dato diversi pesi agli interventi. Spero di non aver comunque travisato i contenuti e di suscitare stimoli alle persone che furono presenti (commentare, modificando e aggiungendo) e a chi leggesse per la prima volta.

Il titolo dato alla tavola rotonda, L’arte frutta, vuole indicare il fatto che in particolare sono sati affrontati due dei temi cardine della mostra Il mercato della frutta:

– Intendendo il termine frutta come verbo: il tema del rapporto fra opera d’arte e mercato (non solo quello della frutta o dell’arte, ma in generale la necessità di dare forma ad un costrutto riconoscibile come artistico e che possa acquisire un valore all’interno di un sistema economicamente stabiliti) . Quali parametri vengono tenuti in considerazione da chi produce  e da chi fruisce opere d’arte nell’ottica di ridurre valore? Oggi che autenticità, originalità, bellezza… non sono più dei valori (quando non siano divenuti disvalori)….

– Intendendo il termine frutta come sostantivo: il tema della contaminazione culturale; quale punto di vista sulla società polifonica di oggi? Cosa può fare l’arte? Analisi o anche modello si integrazione?

Canevacci in videoconferenza dalla Cina
Canevacci in videoconferenza dalla Cina

Emilio Fantin – Project, 2009 (resoconto della performance)

In attesa del video che sto montando e del programma radiofonico che RAM sta preparando sulla performance, quello che segue è un resoconto poco oggettivo che mira a restituire il racconto di un evento (e soprattutto della sua preparazione) da un punto di vista preciso e volutamente parziale: quello di un curatore che ha appena concluso un’esperienza importante di ricerca e di approfondimento. Stendo questo racconto al fine estremamente personale di capire alcuni meccanismi messi in moto ma che avrebbero rischiato di passare inosservati; ancor di più vorrei capire i  miei errori. Ma già so che in questo compito sarò poco bravo. Ed è soprattutto questo il motivo per cui ho deciso di sottoporre questo racconto per certi versi così intimo (e meno indirizzato al pubblico rispetto a tutto quanto io abbia pubblicato su questo blog sin’ora) all’attenzione di un gruppo anonimo ed eterogeneo di internauti che spero voglia aiutarmi in questa autocritica.

Sono passati più di due mesi dalla mia prima lezione di Fondamenti di Matematica. Da quel giorno (quasi) ogni lunedi, mercoledi e venerdi ho cercato di districarmi fra i teoremi e le dimostrazioni che sostanziano la teoria assiomatica degli insiemi.
Il fatto che con il passare delle settimane la mia abilità matematica crescesse in modo inversamente proporzionale alla personale convinzione di stare operando all’intenro del campo artistico, non significa che io sia diventato un esperto di matematica (tanto quanto non significa che il dubbio dal quale la ricerca era partita abbia alla fine corroso la finalità precipauamente artistica e filosofica della performance che ho curato).

Lezione dopo lezione, il professore (Claudio Bernardi) mi forniva un numero crescente di argomenti che io cercavo di metabolizzare su un duplice livello. Da una parte (per lo più nelle mattinate) raccoglievo tutta la mia diligenza per studiare ed esercitarmi al fine di ottenere la capacità di utilizzare correttamente gli strumenti; d’altra parte (per lo più nottetempo) lasciavo libero il mio pensiero e scrivevo le mie riflessioni sul blog, ne parlavo con Emilio o semplicemente le lasciavo maturare in me stesso affinché quegli stessi strumenti potesseto iniziare a configurarsi come arnesi adatti ad essere utilizzati da Emilio.

Un punto di svolta che coinvolse sia il mio apprendimento sia la preparazione della performance avvenne a fine aprile.
Emilio Fantin mi aveva da poco fatto notare un certo commento ricevuto a Project nell’ambito di DoDai. Esso recitava: “Ricorsività o involuzione?”. In quella settimana fu chiaro che Project sarebbe stato il lavoro portato come esempio nella performance di quest’anno,  anche se presentava assai più problemi dei lavori utilizzati in Autoreferenziale. Project era molto più recente e metteva in campo elementi assai meno decifrabili rispetto all’autoreferenzialità.

Emilio Fantin ed Emanuele Sbardella durante la performance del 2008, Autoreferenziale
Emilio Fantin ed Emanuele Sbardella durante la performance del 2008, Autoreferenziale

All’inizio di quella settimana cruciale, quindi, l’assillo che non mi faceva dormire era il tema che, fra la varie proposte che ci giravano in testa, avremmo alla fine proposto ed Emilio affronteto durante la performance. Inizialmente sembrava aver preso un certo vantaggio sulle altre proposte il tema dell’involuzione. Questo concetto, messo in gioco dal comemnto che Emilio mi aveva fatto notare, era riconducibile anche ad alcuni argomenti di metematica. Tuttavia esso, applicato all’arte, era sin troppo ambiguo; applicato alla matematica, per me, ancora troppo oscuro.

Ecco un esempio dlele e-mail che ci scambaivamo in quel periodo. Io scrivevo:

Le involuzioni sono funzioni che applicate de volte allo stesso insieme fanno si che risulti l’identico insieme iniziale, come nel caso della simmetria. Applicare due volte la simmetria, rende nuovamente l’identità.

Nel caso di Project è difficile individurare questi due momenti, ma concettualmente non impossibile. Infatti si potrebbe dire che in un primo momento l’apertura dell’opera (U. Eco) è tale che ogni commento espande il significato dell’opera, ma in un secondo momento si è costretti sempre a tornare sull’insensatezza del primo disegno a matita.

Un primo moviento applica un’aggiunta che da una specie di (+1) all’insieme iniziale. Tale che (n+1); un secondo movimento costringe a ritornare sullo stesso misero elemento di partenza (n).

Nemmeno Emilio era molto convinto della possibilità di poter direzionare la performance lungo questa traiettoria, e il titolo provvisorio di Involution de l’art cedette facilmente il passo quando in quella settimana di fine aprile emerse con chiarezza un tema di fondo diverso dall’involuzione (il buon ordine, di cui parlavo in questo articolo) e la necessità di lasciarlo sullo sfondo senza imperniare comunque la performance su di esso.

Alla fine della medesima settimana la svolta è stata sancita dal fatto che il professore mi abbia invitato alla lavagna a fare un esercizio (nella fattispecie, moltiplicazione di ordinali) che sono riuscito a risolvere con un dignuitoso successo.

Di lì in poi la fase ideativa della performance è stata considerata conclusa, ed iniziavano a farsi sentire necessità organizzative più puramente tecniche (dalla comuicazione all’allestiemento, passando per il fund raising).

In primo luogo ho consolidato gli accordi e le colaborazioni con FB (Fondazione Baruchello), RAM (radioartemobile) e MLAC (Museo Laboratorio di Arte Contemporanea); rispettivamente nelle persone di Carla Subrizi; Dora Stiefelmeier, Mario Pieroni e Ilari Valbonesi; Simonetta Lux e Domenico Scudero.

In secondo luogo ho scritto, sempre con la supervisione di Emilio Fanitn, un volantino informativo teso a preparare gli studenti

Infine ho preso accordi con ciscuno degli operatori che avrebbero in qualche misura preso parte all’organizzazione dell’evento, svolgendo il loro lavoro. La bidella mi ha fatto scoprire il funzionamento delle tapparelle veneziane; la portineria di matematica mi ha spesso controllato materiale lasciato in deposito; i vigilanti all’ingresso dell’università hanno acconsentito a far entrare la vettura di RAM per depositare le pesanti attrezzature di fronte al dipartimento di matematica; il professore della lezione che precedeva la nostra ogni mercoledì ha acconsentito a che venissero installati videoproiettore e schermo prima dell’inizio della sua lezione.

Oggi scrivo questo resoconto personale della mia esperienza curatoriale, a due giorni dalla conclusione della prima fase della performance di Emilio Fantin.

Emilio Fantin
Emilio Fantin

Essa è avvenuta il 6 maggio 2009.
Il giorno precedente, il 5 maggio, l’artista era giunto da Bologna ed in serata abbiamo discusso gli ultimissimi dettagli e fatte le ultime prove all’interno della studio a Trastevere messo gentilmente a disposizione da Cesare (Pietoriusti).

Tutto sembrava andare per il verso giusto, fin quando non decidaimo di connetterci ad intenet per provare a leggere i commenti direttamente dal blog di BridA (come sarebbe accaduto l’indomani). Il blog non si apriva. Nemmeno da un altro computer o sostituendo i cavi. Parte una chiamata skype di urgenza a Sendi (Mango di BridA, di cui fa parte insieme Tom Kerševan e Jurij Pavlica), e alle ore 23:00 veniamo a scoprire che c’è un  problema con il loro internet provider. Ad evitare il peggio c’è stato l’impegno di Sendi a risolvere il problema, passando la notte in binaco mentre io ed Emilio andavamo a riposarci rimettendoci alla buona riuscita del suo intervento in extremis. Quando la mattina del 6 maggio alle ore 7:30 stavo già all’Università per sistemare il materiale, il mio più grande ringraziamento è andato a lei quando tra le altre cose ho verificato che il loro blog era nuovamente funzionante.

Monto la strumentazione in 5 minuti
Monto la strumentazione in 5 minuti

Alle 9:00 Emilio era già arrivato, ed insieme abbiamo atteso l’arrivo dei pochi invitati a questa performance che praticamente si sarebbe svolta a porte chiuse. Alle 10 l’aula si era liberata ed alle 10:15 tutto era pronto per iniziare. Emilio Fantin presetato brevemente dal professor Claudio Bernardi al centro, ed io defilato in postazione regia, fra il mio labtop ed il videoproiettore che mi aveva prestato Alberto (Tessore di 20eventi).

La lavagna e il computer - Foto di Ilari Valbonesi
La lavagna e il computer - Foto di Ilari Valbonesi

Il tempo a nostra disposizione era di circa mezz’ora, ma alla fine il dibattito che la performance ha suscitato ha fatto si che ci siamo potuti congedare solo alle ore 11:00 (dopo quasi un’ora). In questo performance formato lezione, l’artista ha contemporaneamente esposto un suo lavoro precedente e lo ha espanso fino a farci rientrare la situazione attuale.

Una volta usciti dall’Aula C del Dipartimento di Matematica, io ed Emilio siamo stati intervistati da Ilari Valbonesi (RAM) nel giardino della Sapienza, dietro al rettorato.

Alcuni dei post che ho scritto nel mio blog,  durante la curatele dell’evento.

> Geometria intuitiva https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/05/fondamenti-della-matematica_geometria-intuitiva/

> Assi(omi) https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/05/fondamenti-della-matematica_02-assi-e-assiomi/

> Astrattismo e insiemistica https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/09/fondamenti-della-matematica_03-insiemi-e-astrazioni/

> Le  proprietà di un insieme https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/10/fondamenti-della-matematica_04-insiemi-e-proprieta/

> L’insieme degli articoli che… https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/11/fondamenti-della-matematica_05-linsieme-degli-articoli-che-fanno-riferimento-a-questo-articolo/

> Le bellezza dei numeri https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/03/11/fondamenti-della-matematica_05-linsieme-degli-articoli-che-fanno-riferimento-a-questo-articolo/

> Il Buon Ordine https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/04/10/fondamenti-della-matematica_07-buon-ordine/

> Formalizzazione di NoMA (un  mio progetto artistico) https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/04/10/fondamenti-della-matematica_07-buon-ordine/

> Inconscio e matematica https://emanuelesbardella.wordpress.com/2009/05/01/fondamenti-della-matematica_09-inconscio-fra-arte-e-matematica/

Il mercato della frutta_Agamben al mercato e il prezzo del sacrificio

Melius dare quam accipere.

Questo pare che sia il motto del casato degli Odescalchi. Lo apprendo da un articolo apparso su Repubblica nel 2002. Si tratta di una intervista di Laura Leurenzi a Carlo Odescalchi, discendente di quel Ladislao Odescalchi che fondò Ladispoli nel 1888. Da quanto scrive Cinzia Dal Maso, va tuttavia rilevato che se il caro Ladislao  decise di lottizzare la striscia di terra tra il Vaccina e Sanguinaro è soprattutto perché il nobiluomo era dotato di uno spiccato senso degli affari.

Strinse una società con l’ingegnere Vittorio Cantoni e fondò quello che sarebbe diventato il più grande comune del comprensorio, dandogli il suo nome: Ladispoli, ossia “città di Ladislao”. Villeggianti e abitanti del borgo di Palo furono dirottati verso il nuovo centro, restituendo la pace al principe amante della solitudine.

Melius dare? Mmmm…Città che naque per essere dis-abitata; quello che è oggi uno dei Comuni più popolosi della Provincia ricorda, nelle sue origini, il giardino del gigante egoista (vedi il video qui sotto, caricato dalla Rai sul suo canale YouTube. Vittorio De Sica recita la favola in questione)

L’albero da frutta, per il tramite del quale la terra ci dona i suoi tesori, non è stato a caso scelto come simbolo per la trasformazione dall’egoismo privato all’altruismo: come a suggerire che la strada dell’altruismo conduce l’uomo a staccarsi dal proprio congenito egoismo e raggiungere un rapporto privilegiato con la divinità.  Tuttavia questa sarebbe una lettura banale della metafora, ed occorre fare attenzione alle ambiguità pittosto che alle evidenze. Il sacro infatti non si palesa in un luogo pubblico, ma necessita, per così dire, del giardino privato edell’egoismo stesso che alla sostruzione dello spelndido giardino aveva condotto. Non puà infatti darsi sacralità al di fuori di qualcosa che, come questo giardino, non abbia qualcosa di privato e di segreto. L’altruismo e la dimensione pubblica conseguono la statuto della sacralittà solo dopo essersi affrancati dall’individualità. L’ultima soglia, infatti, è qulla della vita della persona, il gigante egoista.

Un primo stadio della sacralità viene conseguiro attraverso la restituzione al publico del tesoro privato, di un un ritorno, er così dire, alla ciclicità della natua. Ma infine egli dovrà uscire dalla sua vita personale per ricongiungersi a quella sacra creatura che simboleggiata da un bambino in simbiosi con un albero. Come illustrerò anche in seguito, la rinuncia (sacrificio) sembra essere una componente essenzale del sacro: la rinuncia da parte del singolo a privilegiare il prorio interesse personale fino a far coincidere quest’ultimo con quello pubblico. Questa profonda relazione fra privato e sacro, fra pubblico e profano, è già nota dai tempi dell’antichità classica.

Plauto (Trin., 286) chiarisce molto bene i limiti semantici della parola: sacrum profanum, publicum privatum habent.

Sacrum indica la sfera di ciò che ha riferimento col dio, publicum indica la sfera dei rapporti fra gli uomini nell’ambito della collettività e della sua organizzazione: i due piani si integrano fra di loro, e il piano dei rapporti fra gli uomini può essere considerato solamente alla luce del piano dei rapporti fra uomo e dio.

Abbiamo pertanto il seguente schema:

sacer (appartenente al dio) profanus (non appartenente al dio)
publicus (appartenente allo Stato) privatus (non appartenente allo Stato)

La contrapposizione fra sacer, publicus e privatus, con publicus termine intermedio fra i due, è presupposta nelle espressioni sacra pecunia ‘denaro di proprietà del dio’ e privata pecunia ‘denaro appartenente al privato’ (Quint. IV 2, 8), alle quali si può accostare l’uso di pecunia publica ‘cassa comune della collettività (in questo caso l’esercito)’ in Cesare (BG VII 55, 2) (3).

Moreno Morani, in un articolo su Zatesis (rivista on-line di studi classici).


Anche durante una guerra, conflitto pubblico per eccellenza, la Bibbia prescrive di rispettare l’albero da frutta e persino di rinunciare alla battaglia per godere dei frutti prodotti dagli alberi che si è coltivati.

Deuteronomio 20:19 – Quando farai guerra a una città per conquistarla e la cingerai d’assedio per lungo tempo, non ne distruggerai gli alberi a colpi di scure; ne mangerai il frutto, ma non li abbatterai: l’albero della campagna è forse un uomo che tu debba includerlo nell’assedio?

Deuteronomio 20:6 – C’è qualcuno che ha piantato una vigna e non ne ha ancora goduto il frutto? Vada, torni a casa sua, perché non muoia in battaglia e sia un altro a godere il frutto della vigna.

D’altro canto nemmeno questa dicotomia fra pubblico e privato basta a rendere conto della sacralità dell’albero da frutta. Infatti pubblico e privato non sono due dimensioni originarie ed alternative, e con la loro dialettica non esauriscono la descrizione dell’intero  spettro delle caratteristiche della vita umana. La sacralità sta, infatti, nella soglia tra vita e non-vita. Non parlo necessariemente di una divinità, ma del segreto fine dell’esistenza, il quale trova innumerevoli menifestazioni nelle religioni e nei culti di tutto il mondo. Solo in un seconfo momento entra il gioco il rapporto fra pubblico e privato, in regione del fatto che le il dolore privato deve trovare conforto in una mitologia condivisa, la rappresentazione pubblica della fine della vita risulta interdetta per questioni di ordine sociale.

Tale paradosso è espresso ottimamente anche nelle parole di Maometto. Secondo Abu Said Al Khudri, Maometto disse che Touba è ” un arbre dans le jardin paradisiaque.

Mbep
Mbep

Le laps de temps nécessaire pour le franchir est de cent ans et, à l’orifice des fruits apparaissent les vêtements des habitants du jardin. TOUBA est un arbre du paradis que Die a planté par sa puissance et y a insufflé son Âme, ses branches pourront être vues en dehors des murailles du paradis. Cet arbre produit des bijoux et des fruits qui sont à la portée de ceux qui le désirent”. La paradossalità risiede nell’accostamento della frutta ad un tesoro, il quale non cessa di essere prezioso pur essendo a disposizione di chiunque ne voglia. O forse è prezioso proprio per la sua accessibilità! Una volta entrato in questa condizione paradossale interdipendenza fra pubblico e privato, l’individuo contemporaneo si trova sempre più esposto alle coercizioni della biopolitica, secondo le modalità tipiche dell’homo sacer descritto da Agamben. Secondo quanto dichiaroato da Filosofico.net L’homo sacer, l’uomo sacro (aggettivo che deriverebbe dall’indoeuropeo, e significa “separato”) che viene definito nel II sec. d.C. da Festo come “colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo; ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio”.  Si tratta, quindi, di una vita umana che si può uccidere ma che non è sacrificabile, che trascende tanto l’ordinamento del diritto umano (Nomos) quanto le norme del diritto divino (Physis).

Sacer è ciò che è riservato agli dèi (quidquid quod deorum habetur), secondo una definizione di Trebazio raccolta anche da Macrobio (Sat., II 3,2): il carattere collettivo della religione romana implica, come conseguenza, che il privato non possa rendere sacro nulla: è privilegio della collettività, nella persona di chi la rappresenta, dichiarare sacro qualcosa.

Quale rapporto fra rappresentante, sovrano e la legge? Dentro o fuori la legge? La legge di dio o legge umana?

Due frammenti di Pindaro ci vengono in aiuto.

a) La legge sovrana di ogni cosa, mortale e immortale, guida facendola giusta l’azione più violenta con mano suprema

b) Il risultato è nelle mani di Dio

Il mercato della futta ha a che fare (nel senso che mette in discussione questo paradigma) con la violenza insita nel diritto, che è l’istituzione con cui l’arroganza umana opera una scissione fra un giudice sovrano (non necessariamente il giudice o il sovrano) e chi viene sottoposto a giudizio. Che rapporto (inclusione o esternalità) c’è tra chi viene chiamato a giudicare e lo spazio delle leggi in base alle quali giudica? Oggi il problema non è solo italiano (v. lodo alfano), ma ancor più riguarda il sistema globale, così imperniato sulle diseguaglianze da rendere persino utopico un panorama di giustizia.

Pubblico il testo di una canzone scritta da Guide Lo Sheikh, per il suo gruppo musicale “the Heartbeats Melody”.

logo the heartbeats melody_s

Price of sacrifice

The same as goods,

Humans born, grow, become mature, then dies,

I and I sometimes cry inside….eye I, aie ay….

Mistakes, sins, dreams and ambitions turn around ,

all along this single way ,so called, life cycle..

Loosing this, and winning that,

There is no surprise,

That’s the price of sacrifice …oh yes ,price of sacrifice (  2 times)

(What to loose and what to win? That’s the question.)

Time runs fast,

Today, in just few hours, will be count in past..

Fortunately God controls…yeah Allah guides my way,

One more time, giving thanks to Allah,

For growing faith’ here in foreign land,

in corner of illusions…in land of temptations

Nothing good comes easily, oh no…, great hope on you,

Being daily victim of stereotype of each type,

Controlling emotions, so much dreams to realise..

Loosing this, and winning that,

There is no surprise,

that’s the price of sacrifice…. Yes, price of sacrifice…. (2 times)

(What to loose and what to win? That’s the question.)

When comes time to  see, with eyes of truth,

Nobody can bribe you,

Even body and soul attain a critical size,

Fruits of choices, come alone ,by themselves.

Just like sweet victory,

after long tribulations

For a champion

That means the price of sacrifice

Loosing this, and winning that

There is no surprise,

that’s the price of sacrifice…. Yes, price of sacrifice….

(What to loose and what to win? That’s the question.)

Guide Lo SHEIKH 26/04/2009

> Leggi l’intervista al musicista, su Africa Nouvelles.


Il mercato della frutta_Contatto, sovversione e reciprocità

In questo articolo intendo collocare il testo curatoriale (la mostra) in un contesto economico globale, spiegando perché ritengo chr tale testo sia una atto di micro-resistenza non contrappositiva al sistema neocapitalistico.

In precedenza avevo già affrontato un aspetto del tema, sollevando alcuni quesiti emergenti dal confornto un po’ superficiale fra l’attività del curatore e quella del manager (articolo correlato, sul Greenness Marketing)

Altro materiale collegato al tema del presente articolo, è quello che ho scritto come documentazione e critica di un’esperienza pregressa: il progetto “Vacanza”, anch’esso con Jack Seah e Wang Ruobing (due degli artisti coinvolti anche ne “Il mercato della frutta”). Esperienza di comunitarismo che si colloca alternativamente al sistema capitalistico tradizionale, ma in modo inclusivo (invito a legere gli articoli correlati, di presentazione di quello che fu il progetto Vacanza e la descrizione dell’opera che Jack Seah realizzò per l’occasione).

La resistenza odierna al capitalismo non può più essere la semplice opposizione conflittuale. Il capitalismo maturo, infatti, si è oggi dissolto nei contenuti e nelle frme grazie ad una tattica mimetica.  In questo senso la società di massa cessa di essere individuata come il risultato diretto del capitalismo spinto ed adattato alla comunicazione; pertanto cessa anche di rappresentare il punto di riferiemento saldo contro il quale  far funzionare il sistema dell’arte e della cosiddetta cultrra alta (leggi l’alto valore economico della cultura e dell’arte). Se da una parte c’è quindi il pericolo di non riuscire più a creare (come avviene da fine 800 al ’68) forme estetiche e modelli sociali dalla fisionomia netta e definita in contrapposizione al modello borgehese (vedi Hauser), sopravviene anche il vantaggio (del quale dobiamo approfittare) di liberarci dall’ipocrisia dell’arte elitaria, della creazione artificiale del valore, il quale viene  da lungo tempo istituito e reinventato attraverso la narrazione dell’autenticità e dell’originalità (vedi Krauss, Clifford, ma anche i testi in cui Abruzzese fonda la sua teoria sociale-massmediale, soprattutto “Le forme estetiche” del 1973).

The age of indolence - Foto by Emanuele Sbardella
The age of indolence - Foto by Emanuele Sbardella

Rispetto a questo argomento Slavoj Žižek sembra essere d’accordo con Abruzzese. Quando il filosofo sloveno afferma , ad esempio, che sotto molti punti di vista è giustificato chiamare Deleuze l’ideologo del tardo capitalismo. “Brian Massumi – scrive Žižek – has very clearly formulated this deadlock, which is based on the fact that today’s capitalism has already overcome the logic of totalizing normality and adopted the logic of erratic excess” (Žižek, in Blow against the Empire?, p. 128, in Manifesta Journal).

Ciò fa si che l’atteggiamento proposto da Naomi Klein nel best-seller “No logo” sia oggi inattuale (oltre che inattuabile). Il presupposto della Klein era proprio la struttura solida e mastodontica del capitalismo, al quale faceva gioco il processo di centralizzazione e omologazione, di cui si faceva promotore. Ma – si domanda Žižek – “is not the latest trend in corporate management itself «diversify, devolve power, try to mobilize local creativity and self-organization?»” (p. 129).

Una volta individuata la convergenza tra le dinamiche del potere capitalistico e delle forze di resistenza, come continuare  resistere? A cosa, esattamente? Contro quali oggetti, contro quali simboli? Il capitalismo di oggi, infatti, non si basa più su sull’accumulazione di valore, che non viene perseguito più attraverso la produzione di oggetti. Esso si basa sull’acquisizione di prestigio (un ritorno alla società di corte descrita da Elias?) attraverso la creazione di ambienti emotivi (brand) e sulla promessa della creazione mitologica di una tribù. “The production of social relation is the immediate end/goal of production”. Il neocapitalismo si basa, quindi, sula produzione e sul modellamento delle relazioni sociali (ma ancora sulla distinzione e sul privilegio, piuttosto che sull’uguaglianza e il rimescolamento). Quando dico, quindi, che il testo della mostra si infila fra le maglie di quel tessuto di significati resistenti, intendo dire che con essa non solo si intende cavalcare e voltare a proprio favore la (probabilmente solo formale, simulata) apertura alla diversità del capitalismo per rimescolare le disuguaglianze. La resistenza da porre non si fa più debole, bensì più radicale nell’affermare la possibilità e la necessità di un sistema non economico di relazioni che trescenda la piattaforma materiale della produzione e delle scambio di merci. L’asse di attenzione si sta spostando, come abbiamo visto, dalla produzione di oggetti alla produzione di relazioni. In questa produzione di relazioni (e non piu nella produzione di oggetti; vale a dire di opere) occorre riaffermare la primari età dello scambio e del contatto.

Abramovic, Imponderabilia, 1977
Abramovic, Imponderabilia, 1977

La reciprocità asimmetrica vaticinata da Clifford nell’ambito di pratiche etno-museografiche non è una relazione di eguaglianza, bensì una tensione in grado strutturare finzionalmente zone di contatto, cronotopi in cui localizzare movimenti reciproci di persone, di merci e di idee.

A mio parere l’unico modo per alzare la posta in gioco ed inscenare una mostra in cui le Porte siano davvero Aperte, non significa solo abbandonadre il punto di vista erucentrcio sullo sviluppo e sugli approdi dell’arte contemporanea globale. Le possibilità sovversive derivano da un tipo di reciprocità che non è compendiabile in istituizoni quali quella museale.

Una singola esibizione, concentrata in pochi giorni ma priva di confini temporali ben precisi, offre un modello più snello per adottare tattiche di resistenza più adeguate. Un museo potrà anche evitare di esporre ed allestire pacchetti esoticizzanti, ma difficilmente potrà fare  ameno di far sentire la forza della propria sede, della propria storia, della propria burocrazia e della propria decisionalità. Eisistono, è vero, assetti museali più leggeri di quanto la tradizione non imponga, ma la tendenza mi sembra dirigere quantomeno verso una reciprocità offerta (se non ostentata o negata), e mai bilateralmente contrattata. L’approccio antropologico della mostra “Il mercato della frutta” mi permette, invece, di considerare l’arte contemporanea con un taglio culturalista che espunge  ogni concretizzazione di autorialità (nonché ogni residuo metaficio). Trattando l’arte come cultura, o meglio, come ambito di fermentazione culturale privilegiato, come mercato di idee e palco per il dialogo, non ha alcune senso spettacolarizzare il prodoo culturale altrui, affibbiargli valori come autenticità e originalità al fine di tesaurizzarli e dargli un senso elevato dal punto di vista europeo.

Il contatto che avviene in codesto scenario non può essere levigato e scevro di collisioni. Mancano le gerarchie che furono stabilite dall’ordine Culturale, mancano le nette delimitazioni e le etichette con cui si aveva gioco facile a dedurre il valore.

La straniazione, che l’antropologia cliffordiana non tende più ad addomesticare, assume in arte la forma perturbante di una relazione che non cessa di confondere; di una integrazione che non cessa di dividere.

Il curatore , come l’antropologo, si sente parte del gruppo con cui lavora, ma resiste, e le dinamiche (anche amicali) che si instaurano non cessano di rivelare la differenza. Questa è la diferenza che non può essere venduta in cambio di piatte relazioni monetarie e che non può essere cancellata dall’omologazione che il capitalismo impone a diversi livelli della vita umana (dal lavoro produttivo al consumo producente). Qesta differenza che fa sì che si possa vivere compiutamente fra gli uomini pur avendo come fine il raggiungimento dello stato (o la consapevolezza di questo raggiungimento) di “straniero tra gli uomini” (faccio riferimento alla mie considerazioni su Isacco per l’ambiguità delle relazioni).

Le reciprocità differenziante che si può opporre come resistenza al neocapitalismo si basa s una procedura riclassificante tipicamente postmoderna che mette in discussione non solo i risultati, ma le fonti stesse che legittimano il nostro agire e il nostro abituale modo di concettualizzare il rapporto fra culture, il rapporto fra classi ed il rapporto fra individui (intra e infra individuale).

La prima topologia da smantellare se si vuole procedere nella direzione di una reciprocità differenziante è quella, pericolosamente incombente nel caso della mostra “Il mercato della frutta”, di Oriente-Occidente. Slavoj Žižek dà, ad esempio, per scontato che a questi due blocchi appartengano due tradizioni totalmente separate e non concomitanti. A conclusione del suo già citato testo sul neocapitalismo, egli si appropria di una distinzione concettuale che, per quanto euristica e strumentale, non è accettabile.

“In the Jewish tradition, the Divine Mosaic Law is experienced as something externally violently imposed, contingent and traumatic – in short, as an impossible/real Thing that «makes the law»” (p. 135). Per il filosofo l’equazione è semplice ed impeccabile: la tradizione giudaico cristiana sta all’Europa come il new age all’Asia!

In contrast to the New Age attitude, which ultimately reduces my Other/Neighbor to my mirror image or to the means in the path of my self-realization (like Jungian psychology, in which the other persons around me are ultimately reduced to externalization/projection of the different disavowed  aspects of my personality), Judaism opens up a tradition in which an alien traumatic kernel forever persists in my Neighbor – the Neighbor remains an inert, impenetrable, enigmatic presence that hystericizes me.At the very moment when, at the level of «economic infrastructure», ‘European’ technology and capitalism ere triumphing worldwide, at the level of «ideological superstructure», the Judeo-Christian legacy is threatened in the European space by the onslaught of New Age ‘Asiatic’ thought, which […] is establishing itself as the hegemonic ideology of global capitalism.

Therein resides highest speculative identity of the opposites in today’s global civilization: although «Western Buddhism» presents itself as the remedy against the stressful tension of the capitalistic dynamic, allowing us to uncouple and retain inner peace and Gelassenheit, it actually functions as its perfect ideological supplement.

If Max Weber were alive today, he would certainly write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, one that would be titled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism.

Per dimostrare quanto, nonostante l’apparente ovvietà (ed eventuiale utilità concettuale) del’argomentazione, l’equazione proposta dal filosofo sloveno non sia accettabile, ci basterà osservare il semplice fatto che Isacco di Ninive appartiene a pieno titolo alla tradizione giudaico cristiana occidentale, e che eppure è proprio a partire dalla sue considerazioni che nello scorso articolo ed in questo presente ho potuto dedurre alcuni elementi concettuali perfettamente calzanti per descrivere pratiche artistiche contemporanee apertamente influenzate da quello stesso filone filosofico che viene genericamente nominato “orientale”.

La questione sui diritti umani, benché non totalizzante ed universlae, appare a Žižek come tipicamente moderna e contrapposta alla tradizione giudaico cristina. I diritti uamni mettono in fscusisone l’assolutesza, l’esternalità e la radicalità dei dieci comandamenti. Sono quasi il diritto di violare i comandamenti . “of course, human rights do not directly condone the violation of Commandaments: the point is just that they keep open a marginal «gray zone,» which is supposed to remain out of the reach of (religious or secular) power” (136).

Il mercato della frutta cerca di rigettare ogni orientalismo ed ogni occidentalismo, al fine di creare un contesto espositivo che non solo faccia sfoggio delle armonie e dei contrappunti, ma che anche eliciti una reciprocità che non disdegna di ostentare le dissonanze.

Il mercato della frutta_Per un’arte ecologica

Arendt, Bateson e l’abbandono dell’opera come presa di coscienza ecologica

Per un arte ecologica

Da quando la condizione umana ha perso il suo punto di riferimento centrale (la Terra), secondo Hanna Arendt, la relazione ecologica primordiale si è andata sfaldando. Promotrici di questo sfaldamento sono proprio le opere con le quali l’uomo, più o meno inconsciamente,  agisce in maniera distruttiva sulla natura. Tale processo sembra inevitabile quando all’operare si accompagna un dispiegamento tecnico come quello moderno.

“Il creatore del mondo dell’artificio umano è sempre stato un distruttore della natura” (Arendt, Capitolo 19. La reificazione, p. 99).

Hanna Arendt
Hanna Arendt

Scopo di questo articolo è capire se uno degli aspetti della dissoluzione dell’opera nell’arte contemporanea non sia proprio la deliberata volontà da parte di molti artisti di riaffermare la necessità ecologica. Nel caso in cui lo fosse, i piacrebbe inoltre capire se si tratta di riacquisire uno stato ecologico bilanciato secondo schemi della purezza primordiale o secondo nuovi modelli di innesti e contaminazioni?

La mia tesi di partenza è la seguente: la coscienza ecologica che soggiace all’abbandono dell’opera da parte dell’artista contemporaneo (mi si permetta la generalizzazione) non può prescindere da una ecologia delle idee. Per questo non si tratta di ri-produrre un modello arcaico di rapporto ecologico con la natura. Non può esistere tale passo indietro. Come diceva un personaggio di Bertolucci, “la natura non è naturale”. E non potrà mai più esserlo.

Nessun modello arcaico di riferimento, ma una continua negoziazione e dialogo. Il funzionamento è quello dell’ecologia della mente descritto da Bateson, e può essere attuato solo attraverso micro pratiche discorsive, che sono quelle poste in essere da molti artisti contemporanei: essi si pongono in tal modo non come creatori di opere,  besì  come operatori di una presa di coscienza collettiva; termini di contatto; amplificatori di idee e di esperienze. Questo il loro ruolo. A questo ruolo è connesso l’abbandono dell’opera come strumento definitivo e l’utilizzo dell’operazione come strumento infinito. Con l’ecologia di idee e il dialogo infinito, non si tratta piu di creazione ma di condivisione, non di opera ma di processo, non di estetica ma di etica.

Questo slittamento è possibile solo a partire dallo status eccezionale concesso all’artista rispetto al lavoro (come ho scritto nell’articolo su Isacco di Ninive), e coincide con l’opinione di Hanna Arendt, secondo la quale, ci troviamo nella condizione in cui “qualsiasi cosa facciamo, si suppone fatta per guadagnarci da vivere. […] La sola eccezione che la società desidera proteggere è l’artista, che, rigorosamente parlando, è il solo «creatore di opere» rimasto in una società di lavoratori” (Anna Arendt, Vita activa, Cap. 17. Una società di consumatori, p. 91).

La trasposizione artistica di un’esperienza, per il fatto stesso di oggettivare l’esperienza individuale e renderla disponibile, la redime dalla fugacità del consumo e la immette nel circuito pubblico. Si potrebbe dire che le offre una chance di immortalità. Si può dedurre dagli scritti di Arendt la volontà di uscire dal solipsismo moderno, e anche se lei parla ancora dell’artista come «creatore di opere», non è illegittimo oggi vedere l’artista come principale veicolo per la riconquista di un orizzonte della condivisione del mondo; condivisione che implica un certo abbandono dell’opera ed una ricerca del rapporto etico e politico con altri uomini liberi ed eguali.

Il valore dell’arte contemporanea, per lo meno quello che vorrei evidenziare con la mostra “Il mercato della frutta”, risiede nello scambio che essa innesca. Non si tratta di uno scambio astratto basato su valori livellati sul medium del denaro, ma di uno scambio necessariamente asimmetrico ed incommensurabile. È impossibile ridurre lo scambio alla relazione fra due parti. Se lo si concepisce come una rete ecologica di relazioni, allora ci si accorge che quanto si dona e sempre meno di quanto si possa ricevere.

Anche l’operato artistico, come la merce secondo Marx, è un «arcano». Ma a differenza della merce non assume un esistenza indipendente dal luogo di produzione e dal produttore. Il mondo dell’opera, per quanto autonomo, offrirà pur sempre un legame con l’hic et nunc della sua ideazione/realizzazione.

“Il grano mietuto a mano su ripidi pendii da gente che mangia tortillas a ogni pasto non può essere equivalente a quello dispensato da giganteschi motacarichi” (Clifford, Strade, p. 376).

Nello scambio artistico vengono tenute in considerazione anche tutte le simbologie intrinseche alla lavorazione. Il processo (non solo la forza lavoro) che si incarna nell’oggetto apre un orizzonte di scambio in cui, a differenza di quello puramente economico, non si ricerca il semplice soddisfacimento privato. Anzi, si cerca un affrancamento dalla vita privata, cioè a dire di quella vita che risulta privata della dimensione propriamente umana, che è quella pubblica – la cui amministrazione spetta alla vera politica (non si intende certo la partitocrazia moderna).

L’operazione di messa in scena una nuova dimensione dello scambio all’interno del luogo dello scambio economico per eccellenza è provocatorio,  e mira anche a far riflettere sull’essenza del lavoro e sulla condizione umana come basata in modo imprescindibile sullo scambio con gli altri. Cos’è il lavoro? Perché e come lavorare?

Agli occhi dell’homo faber “il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla terra e fatta di materiali che la natura affida alle mani dell’uomo non consiste di oggetti da consumare ma da oggetti da usare” (Arendt, p. 95).

La natura perde il suo valore quando viene ridotta a materiale da costruzione per le opere dell’uomo. La Natura non  un Altro da difendere (men che meno da sfruttare), ma allo stesso tempo una origine da riacquisire ed un fine da accettare. In questo, l’artista che dismette l’opera come principale strumento di produzione, accetta di farsi parte di una rete ecologica che lo sovrasta. Nell’accettare questa odalità egli reimmette automaticamente anche al livello di tematizzazione la questione ecologica  nel dibattito pubblico; e non lo fa per trarne un beneficio privato (come giustamente sospettava Giorgio Gaber), bensì per aprire un dialogo al quale tutti ambiscano a contribuire. In questo modo tende a crearsi spontaneamente una sinfonia che non solo parli democraticamente del mondo condiviso, ma che nel parlarne lo costituisca. Non il solo uomo è unità di msura dell’evoluzione, ma l’interezza delle relazioni che si instaurano  fra  gli uomini  e l’ambiente in un rapporto non asimetrico (ecologia della mente).

“Qualsiasi organismo che la spunti nella sua lotta con l’ambiente, sarà inesorabilmente cancellato dal pianeta Terra” (Bateson).

Un costrutto politico che assunse questo modello ecologico fu la polis greca,  del quale nome la nostra città conserva ancora traccia – Ladispoli.

Quale costrutto artistico possiamo imaginare in relazione al modello di interconnessione ecologica?

Il mercato della frutta_Isacco di Ninive e il lavoro dell’artista contemporaneo

Isacco di Ninive
Isacco di Ninive

Secondo uno dei padri della Chiesa Cattolica (Isacco di Ninive, VII sec.), Dio si è storicamente rivelato

– come Giudice (subito dopo la trasgressione originaria)

– come Signore

– come Padre (dalla venuta di cristo in poi)

Nonostante oggi si viva nell’ordine della paternità divina, non bisogna sentirsi autorizzati a vivere una vita più attenta agli affari terreni. La contemplazione di quel Dio che agli occhi del mistico cristiano si sta facendo sempre più prossimo resta un’attività totalmente ascetica, quindi slegata dagli affari mondani. Mi interessa sottolineare il modo in cui Isacco di Ninive collocava l’attività contemplativa rispetto al resto degli affari mondani, delle attività che quotidianamente gli uomini svolgono per sopravvivere (ed, eventualmente, vivere) su questa terra.

Innanzitutto egli afferma, con un certo anticipo su quelli che sarebbero stati scrupoli tipicamente moderni, che la contemplazione di dio non è un’attività oziosa (v. Arendt su ozio, lavoro e commercio), bensì la grande opera che gli uomini devono compiere per effettuare l’esodo dal mondo e per porre fine a tutti i lavori.

Il lavoro deve tramutarsi in un obbligo nei confronti di dio, e non permanere ad essere il semplice assolvimento del fabbisogno umano, del suo essere parte di un superiore sistema di cui farebbe semplicemente funzionare il metabolismo (direbbe Arendt, a proposito del lavoro).

A testimonianza di quanto un diverso tipo di lavoro rimanga centrale nell’attività umana secondo isacco, cito i seguenti frammenti (45 – 46; 69), tratti dal suo primo discorso sulla conoscenza di Dio.

“Il riposo di fatto acceca l’uomo, perché non guardi alle raltà divine con stupore, ma le indaghi come con una vuota ricerca.

Lo stupore del pensiero coerisce al sedere da soli, senza dispersione, che mette in moto moviementi fervidi e stupendi, a partire dalla necessità e dai lavori, tramite la speranza che genera nel pensiero”

“Filopono non è chi non ama i riposi del corpo, ma chi non ama le consuetudini del corpo”

Il lavoro proposto da Isacco di Ninive non è obliterato ma trasfigurato; costituisce non solo una critica ante litteram al lavoro per come questo viene organizzato all’interno delle società fordiste, ma anche un modello in grado di gettare luce su alcune pratiche di artisti contemporanei.

Contro il lavoro tra gli uomini e contro il riposo tra gli uomini; il mistico vaticina non un lavoro riposante bensì, direi, un riposo lavorante. La (il) fine di tutti i lavori è una redenzione dalla necessità del lavoro (dalla sua fatica), e nemmeno una liberazione del tempo in esso impiegato. Quello che viene esaltato e ricercato è un tipo di attività continuo ed impegnativo, ma scevro da qualsiasi valore d’uso e completamente in-utile. L’esaltazione dell’attività non funzionale procede di pari passo con l’impegno costante e lacerante della persona che decide di dedicarvisi.

Così molte ricerche artistiche contemporanee mirano ad una spossante ricerca oltre il limite corporale (e mondano): lo fanno ponendosi come obiettivo attività spesso ripetitive e prive di qualsiasi funzionalità (nella logica di chi non si è ancora fatto straniero nel mondo e vive per lavorare).

Senza l’impegno lacerante che resta nel lavoro trasfigurato e svincolato dagli scopi mondani, la vita dell’uomo sprofonderebbe nel riposo e non si nutrirebbe più della meraviglia che fanno uscire le sue naturali propensioni ad indagare al di fuori del circolo vizioso di un autistica e vuota ricerca di se stessi (arendt su cartesio).

In questa ricerca, l’obiettivo che Isacco pone non è quello – di certa teologia contemporanea – di operare al fine di una inclusione (rispettosa dell’estraneità) dello straniero, bensì quello di farsi straniero tra gli uomini.

Questo mi induce a riflettere  e a mettere in dubbio la facilità con la quale si tende ad utilizzare il paradigma del “relazionale” e rivalutare lo straniamento, il disorientamento e l’amibiguità che si creano in molti comportamenti messi in sena o innescati al’interno di pratiche performative contemporanee.

Impressioni che produciamo, raccogliamo in questa vita. Che ne sarà?…

Concludo con il passo che mi sembra più profondo e meno parafrasabile, nel convincimento che anche al di là della momentanea impossibilità razionale di collegarla al discorso appena concluso, essa possa fornire innumerevoli altri momenti di riflessione.

“Rapinano la coscienza coloro che la aggrediscono senza la pratica, cioè invece della verità ne rapinano un sembiante. Essa abita da se stessa nei movimenti di coloro che nella propria vita sono divenuti dei crocifissi e hanno aspirato la vita da dentro la morte” (Primo discorso, frammento numero 26)

(dieciluglioduemilaotto) +1_Lista delle domande di Peter Right (aggiornato in tempo reale)

Di cosa fa parte questa lista? Leggi il proponimento

1 – ore 15:00

> Qual’è il significato etimologico della parola “ripetere”?

2 – ore 15:12

> Paura e tentazione!… (rispondete in molti)?

3 – ore 15:50
4 – ore 16:02
5 – ore 16:06
> Quale sarebbe la domanda che non vorresti ti venisse posta?

6 – ore 16:14
7 – ore 16:27
8 – ore 16:34
> Secondo voi… (entrate in pochi!)?

9 – ore 16:45
> Che domanda ti aspetti che io ti ponga dopo questa?

12 – ore 17:11
> A proposito di te e di me (DOLORE). Ma noi, in quanto esseri umani…?

13 – ore 17:44
14 – ore 18:01
15 – ore 18:10

Origami_01 – Seduzione e resistenza nel rapporto fra artista e curatore

In risposta ad una sollecitazione proveniente da due artiste di Anversa, ho prodotto un testo ed un video che nel seguente articolo mi accingo a criticare. Il risultato è da considerarsi una bozza per un articolo di maggio respiro che sto scrivendo per la rivista Origami. Il tema del primo numero della rivista è Simulare per sedurre, ed io tratterò il gioco di seduzione e inganno che si crea tra artista e curatore.

Al di là della contingenza dell’occasione (intervento richiesto da una mia amica artista di Anversa “Dottirslonza” ad una sua performance il giorno del 25 aprile), ho avuto modo di scrivere a mano libera questo testo che sviluppa le mie attuali riflessioni sui livelli di realtà che nella relazione in questione si instaurano (entrando a far parte dello spessore dell’opera – della sua ombra, direbbe Perniola).

Sull’ondata di una moda heideggeriana, molti critici tornano a considerare l’arte come la messa in opera della realtà. Cosa si vorrà mai intendere con questa accezione volgarizzata del verbo heideggeriano?
Uno dei maggiori difetti che spesso si riscontrano nel Portobello della critica (passatemi questa coloriture scritte di getto e poco ponderate) è la riduzione della teoria heideggeriana ad un semplice fatto di realizzazione di una virtualità. Altre volte come il disvelamento di un messaggio implicito. Altri casi…
In molte occasioni,  l’elemento del pensare heideggeriano che maggiormente viene leso è proprio la sua base di partenza: la fenomenologia.
Senza stare troppo a discutere sul rapporto di Heidegger con la fenomenologia, e l’evolversi di tale rapporto nel tempo; dirò solo che evitare (anche inconsapevolmente) di considerare questa base fenomenologica, porta ad un’aporia critica riducibile a quanto segue: uno scollamento (eheh) fra realtà dell’opera ed il suo significato (come se fossero due mondi a parte). Con la conseguenza che l’oggetto non conta nulla (con la facilitazione di una presunta legittimazione da parte delle avanguardie storiche) e che tutte le interpretazioni (non importa quanto banali), sono ammesse. Come se il significato fosse l’anima di un corpo partorito dall’artista.

Io credo che ragionare sullo statuto dell’illusione e dei livelli di illusione presenti in un’opera e scandagliare la genealogi a di un’opera (non fermarsi quindi all’intenzionalità dell’autore e o alla ricezione del fruitore) siano per questo motivo urgente di riflessione.
Uno dei punti che si potrebbe rivelare fondamentale a questo scopo è lo studio del rapporto fra artista e curatore; relazione di dialogo cooriginario entro la quale l’opera si costituisce nel suo insieme (non separatamente o cronologicamente; cosa fare; quale messaggio esprimere; quali materiali utilizzare…). Relazione che io ho già analizzato nella mia tesi di Master e che amplio qui ocn recenti appunti e riflessioni.

Fra curatore e artista si crea un mondo condiviso che andrà a fare lo sfondo dell’opera.
Si infittisce la trama relazionale, in un processo di rimando continuo di giochi di realtà e di illusioni reciproche. Tipico più o meno di tutti i tipi di relazioni umane, nel caso specifico un analisi del termine curatore ed una sua contestualizzazione storica (che ho in mente ma ancora non ho scritto) fanno vedere che il rapporto a/c è più apertamente contraddittorio. Compresenza di amicizia ed inimicizia; amore e odio; identificazione e repulsione. Le illusioni, non si cerca di svelarle; i contrasti; non si cerca di conciliarli. Ma di metterli in opera. In “realtà”? Impossibile (forse) dirlo.
Bisogna innanzitutto capire in che senso l’illusione può entrare a far parte di un discorso sulla realtà.

“Perché una cosa abbia un senso, ci vuole una scena, ci vuole un’illusione, un minimo di illusione, di movimento immaginario, di sfida al reale, che vi coinvolga, che vi seduca, che vi ripugni” (Baudrillard).

Jef Safis edited picture inspired by Baurdillard
Jef Safi's edited picture inspired by Baurdillard - "L'illusion ne s'oppose pas à la réalité, elle en est une autre plus subtile, qui enveloppe la première des signes de sa disparition"

Illusione, nel senso estetico, più che nel senso conoscitivo, non ha una radice greca. La sua etimologia è propriamente latina, “viene da ludus, che significa gioco in atti, opposto a iocus, che significa il gioco in parole, cioè lo scherzo. Si tratta perciò di una parola che affonda le radici in uno stile di pensiero tipico della romanità arcaica, la quale privilegia l’azione, anzi un tipo particolare di azione rituale, dotata di efficacia pratica. [Il modo di pensare romano] è imperniato sull’esperienza del rito inteso come azione dotata di effettualità e di obbligatorietà giuridica”.

Perniola riprende Baudrillard in accordo con l’idea secondo la quale l’arte mantiene quell’aspetto rituale e cerimoniale, che usa violenza sul reale.
“È nell’arte che si è preservato qualcosa della potenza cerimoniale e iniziatica […]. È lì ce si conserva una padronanza delle apparizioni e delle sparizioni, e in particolare la padronanza sacrificale dell’eclissi del reale” (Baudrillard).
Non illusione come distrazione, ma illusione come magia. Un effetto magico che incide sulla realtà, ma che nella contemporaneità starebbe, secondo Perniola, svanendo tra l’effetto annichilente dell’opulenza comunicativa e dell’autoderisione dell’arte contemporanea.

Siamo sicuri che l’arte contemporanea non possa più rivitalizzare quell’efficacia simbolica tipica della magia, ricreare un’illusione che emancipi dalla «stupidità estatica nei confronti del reale»? Mario Perniola sembra persuaso del contrario, ma effettua una chiara scelta di campo nel trattare dell’illusione esclusivamente nel suo senso estetico, contro il senso «metafisico-conoscitivo». In senso opposto, i questo caso, va letto il lavoro di Levi-Strauss, il quale (non certo interessato all’estetetica contemporanea) lascia inalterata l’unitarietà degli aspetti «estetico» e «conoscitivo» dell’illusione, così come le trova presso le culture che si trova a studiare.

Nel noto saggio dedicato all’efficacia simbolica nelle pratiche magiche e sciamaniche l’antropologo francese affronta il tema, dal punto di vista occidentale e disincantato; quindi necessariamente incredulo o scettico, ma anche pragmatico e dissacrante. Parte dal dato di fatto: l’alta incidenza di guarigione in seguito a interventi terapeutici di matrice magica. All’incredulità si accompagna un sano relativismo e pragmatismo che conduce lo studioso francese ad escludere, come strumento interpretativo del fenomeno, la facile scappatoia dello psicologismo, che se non approfondito altro non fa che spostare più in là la questione senza fornire alcuna vera soluzione.

Il termine “cura psicologica […] rimarrà vuoto di senso sino a quando non si definirà la maniera in cui rappresentazioni psicologiche determinate sono invocate per combattere squilibri fisiologici, egualmente ben definiti” (Levy-Strauss).

Come esempio e caso studio Levi-Strauss adotta un particolare canto sciamanico che viene eseguito in occasione di parti difficoltosi tra i Cuna. Esso assume la funzione di uno strumento attraverso il quale si opera una vera e propria manipolazione psicologica dell’organo malato. Il testo di questo canto è un racconto che sortisce un effetto lenitivo in quanto interrompe il distanziamento dal mondo che ogni forte dolore provoca. L’ascolto di questo canto, oltre ad altri aspetti quali la prossemica della presenza dello sciamano in persona, fa si che la paziente venga introdotta in una situazione diegetica (o meglio, a metà via tra mondo della narrazione e mondo narrato) in cui “il corpo e gli organi interni dell’ammalata costituiscono l’immaginario teatro” (Levy-Strauss).
Il racconto è ossessivo e basato su immagini molto vivide; viene esposto con una alternanza serrata fra mito e realtà.
“La tecnica del racconto mira dunque a restituire un’esperienza reale, in cui il mito si limita a sostituire i protagonisti” (Levy-Strauss).

Riavvicinamento al reale e sostituzione. L’ambientazione è sfasata tra interno ed esterno; tra “il quadro del mondo uterino, tutto popolato da mostri fantastici e di animali feroci” ed il mondo esterno con il quale lo stregone cerca di far rientrare la partoriente – attualmente immersa nel proprio dolore – in contatto.

“Sono, dice l’informatore indigeno, «gli animali che accrescono il dolore della dona in travaglio», ossia le doglie stesse, personificate”, e poste nella narrazione del canto sotto forma di immagini conosciute. Ecco quindi in cosa consiste la cura. “La cura consisterebbe nel rendere pensabile una situazione che in partenza si presentava in termini affettivi: e nel rendere accettabile alla mente dolori che il corpo si rifiuta di tollerare”.

Un ruolo estremamente importante in questo meccanismo curativo viene giocato dalla comunità e dal grado di coesione o condivisione di un universo simbolico che le sono propri. Nello sciamano, individuo eletto che ha accesso a zone del sacro normalmente interdette agli altri membri della comunità, si incarna il sigillo che garantisce la sopravvivenza del gruppo in quanto gruppo. Attraverso la sua mediazione con il mondo degli spiriti, eventuali squilibri caotici e deleteri per il gruppo vengono riordinati in una immagine ordinata del mondo, un cosmo, novus ordo (simile a quello dell’artista che espone un Mondo nella sua opera); e la presenza del’esserci nel mondo (terminologia usata da Ernesto De Martino sulla base di quella impostata da Martin Heidegger) viene garantita. Il «dramma magico» è inteso da De Martino come l’eterno conflitto dell’uomo che tenta di “affermare la volontà di esserci come presenza di fronte al rischio di non esserci”. La magia è, quindi, per De Martino, un dispositivo atto a difendere la coscienza precaria dell’uomo arcaico, uomo per il quale il mondo non è mai dato una volta per tutte.

Non sembra questo carattere precario essere tornato preminente nel nostro mondo contemporaneo? Ma in quale epoca questo non sia avvenuto, non è possibile asserirlo. A parte le banalizzazioni storicizzanti che vogliono un ritorno del post- al premoderno, non si tratta poi degli stessi caratteri di precarietà? Chi sarebbe lo sciamano contemporaneo? (Forse più Saatchi che Beuys!). E che tipo di ruolo giocherebbe in questo caso la comunità? Sappiamo che la comunità assiste direttamente lo sciamano nella cura, conferendogli il necessario consensus collettivo. L’importante è, infatti, che ci sia un sistema coerente e condiviso (e, per questo, significativo) di entità che stanno alla base dell’universo. Il dolore incoerente ed arbitrario, che costituisce un elemento estraneo al suo sistema (come il dolore di una partoriente in gravi condizioni), “grazie al mito, viene sostituito dallo sciamano in un insieme in cui tutto ha una ragione d’essere” (Levy-Strauss).
La risposta alla comprensione di questo nuovo quadro non è la rassegnazione, ma la guarigione.

Mentre nella nostra società “la relazione fra microbo e malattia è esterna alla mentalità del paziente, è in una relazione di causa ed effetto; […] la relazione fra mostro e malattia è interna a quella stessa mentalità, è una relazione fra simbolo e cosa simbolizzata, fra significante e significato. Lo sciamano fornisce alla sua ammalata un linguaggio nel quale possonoesprimersi immediatamente certi stati non formulati, ed altrimenti non formulabili”.

Polona Tratnik - Foto by Emanuele Sbardella
Polona Tratnik - Foto by Emanuele Sbardella

Levi-Strauss sostiene che forse lo sciamano della nostra società contemporanea è lo psicanalista. I tratta solo di un a suggestione, benché fondata. Pertanto la mia proposta nn sarà una vera e propria critica, quanto una suggestione alternativa.

Nel pieno rispetto di quanto scritto da Levi-Strauss (che resta ancora da approfondire), io propongo invece di designare il curatore come lo sciamano nella nostra società, colui che sussume il ruolo di rappresentante di collettività e funge da mediatore con l’artista. Il curatore, e non l’artista o il massmediologo/pubblicitario. Come nel caso della sciamano, il curatore può essere inteso come un soggetto che ha attraversato in prima persona uno stato di crisi di quelli patologici considerati rischiosi per la società; essendone usciti, essendo in un certo senso guarito, può essere investito in prima persona, a nome della collettività, ed in rapporto di identificazione con l’artista (come lo sciamano con il malato) per controllare quegli stati dissociativi, e senza ricorrere a censura o eliminazione.

Il mito e la poesia, o meglio: la poesia, quando inserita in un rituale (su uno sfondo mitologico più o meno rilevante), può quindi essere efficacemente usata per la sua «proprietà induttrice». L’efficacia simbolica dell’arte (la sua magia) deriva dal suo statuto illusionistico, a metà via tra la sua declinazione conoscitiva ed estetica.

Illusione non propriamente avulsa dal suo aspetto conoscitivo (segno e sapere), ma nemmeno svincolata dal suo aspetto estetico (simbolo ed apparenza).

Ed è qui che noi vediamo ancor oggi stagliarsi l’ombra lunga di Platone: nell’impossibilità di liberarci dalla prigione del corpo e apprezzare il mondo in una maniera che non sia estetica.

Se per Levi-Strauss non c’è differenza tra pensiero scientifico e mentalità primitiva in quanto ad organizzazione ed articolazione linguistica dei concetti, anche la tanto acclamata utopia duchampiana (quanto più tardi quella kosuthiana) di liberarsi dell’apparenza dell’opera d’arte rimane la semplice copia di una idea.

Nonostante una propulsione conoscitiva sempre più spregiudicata, si resta sempre legati a questi sensi. Fin quando si sentirà il bisogno di liberarsene, si stringeranno sempre di più le catene. Ma fino a quando si sentirà questo bisogno? Si potrà non sentirlo? Cosa accadrà a quel punto?

Forse quando finirà anche la necessità di un illusione.
«La natura deve essere contraddetta. Qui, l’usato fascino dell’illusione deve cedere ad una fascinazione più alta»

Questo è quello che ho cercato di condensare nell’intervento su Dottirslonza; quello che ho riassunto qui. Molto altro ho già scritto nella mia tesi e nei miei appunti. Moltissimo c’è da aggiungere.
Occorrerà in seguito comprimere quanto possibile.

Per direzionare lo sviluppo del mio discorso ho già in mano un’altra opera (nn più contemporanea, che sto iniziando a leggere in quest’ottica).

A presto per futuri aggiornamenti. Sono graditi commenti da chiunqueper correggere/ampliare/deviare le direzione del mio studio epr compilare la’rticolo “finale”