Iniziamo con alcune informazioni introduttive.
Il resoconto vero e proprio è scritto in bianco sotto questi tre paragrafetti scritti in grigio.
(…per chi proprio non avesse “voglia né di leggere o studiare”… almeno non perdetevi il video che ho fatto durante gli ultimi 5 minuti della performance – è posto alla fine dell’articolo)
Cosa vi accingete a leggere?
Più che una critica, un resoconto dell’esperienza che io ho fatto di una performance di Cesare Pietroiusti. Questa critica informale e soggettiva è arricchita da foto e video che ho registrato dall’interno ed è accompagnata da alcuni spunti di riflessione che questa esperienza ha suscitato in me.
La performance si è svolta nello Spazio Risonanze dell’Auditorium Parco della musica di Roma, fra le ore 21:30 e mezzanotte del 26 febbraio 2010, ed era intitolata “Una lezione”. Si contestualizza nell’ambito della manifestazione “Fluxus Biennal”, a cura di ABO – Achille Bonito Oliva.
> Comunicato stampa sul sito dell’Auditorium
Premesse metodologiche
Il mio stile critico è fortemente influenzato da una duplice partecipazione. Innanzitutto Cesare Pietroiusti è un amico ed un artista con il quale ho già lavorato. Secondopoi, per l’occasione, io non ho solo visto la performance dall’esterno, ma ho partecipato con altre 40 persone circa alla performance nel ruolo di discente-bevitore, rispettando le regole imposte dall’artista.
Trattasi, quindi, di osservazione partecipante in cui lo sguardo critico oggettivo cede sotto più fronti il passo ad uno sguardo critico appannato, fazioso e disinvolto.
Dati introduttivi
L’idea della lezione prende spunto dalla volontà di Iacopo Seri di dare forma concreata (extralibresca) ad un testo di Deleuze e Guattari, “Millepiani”, che è stato appunto il testo di cui si è parlato durante la lezione, con cesare Pietroiusti come Professore e Filipa Ramos come assistente.
Oltre alla presenza dei tre artisti, l’area della performance era occupata da altri due gruppi di persone: i discenti (un gruppo di una quarantina di persone che si erano iscritte tramite email ed avevano ricevuto dispense da studiare e che avrebbero dovuto bere, come anche gli artisti, un litro di vino durante la lezione) e gli osservatori (un gruppo più folto composto per lo più da critici, galleritisti e giornalisti. Ad ogni modo persone interessate a guardare la performance dall’esterno, o che non erano rientrati nella selezione).
I tre artisti erano disposti al centro, vicino ad una lavagnetta. In una prima fascia attorno agli artisti erano disposti 5 tavoli rotondi sui quali abbiamo trovato tovaglioli, pane scuro, fogli, penne e bicchieri. La bottiglia di vino veniva consegnata personalmente al momento dell’accredito. Il vino poteva essere bianco o rosso, selezionato al memento del’iscrizione, ed era di ottima qualità. Io ho ricevuto un Barolo offerto dall’azienda vinicola Rainaldi. Tttto il vino era garantito senza solfati – come ha tenuto a specificare Cesare – quindi “eventuali mal di testa non sarebbero stati da attribuire alla cattiva qualità del vino, ma alla forza dei concetti che si sarebbero andati ad affrontare”.
Resoconto
Mentre mi recavo all’Auditorium approntavo il design del mio arredamento interno cogliendo qua e là qualche assaggio di un Bukowsky che avevo portato meco.
In fin dei conti sarebbe stato sufficiente mimetizzarsi con il lerciume del treno in cui stavo viaggiando.
Ma fare proprio il lezzo del quotidiano pendolarismo è assai meno vanaglorioso che godere del lezzo distillato da Charles. Così dicono. E così sia.
Leggo:
“L’uomo è la fogna dell’universo”
Alzo gli occhi. Li riabbasso subito per paura di continuare a non trovare nulla da eccepire.
Continuo a leggere:
“Non riesco a affrontare la vita, quando sono sobrio”
Alzo gli occhi. Stavolta chiudo i libro con la scusa di non voler arrivare troppo presto al dunque. In fin dei conti la scelta di portare con me proprio Mirster B. (e non sto parlando del corrotto) era tesa a condizionare il mio approccio alla performance verso un lassismo che ritenevo più adeguato della mia usuale continenza, ma questo condizionamento era troppo lapalissiano. Posso accettare di venir condizionato solo se prima mi convinco a far finta che non mi si stia condizionando. Ma questo era troppo pacchiano per uno a cui piace illudersi di non essere facilmente condizionabile. La scelta di farsi accompagnare in treno da Bukowsky, quindi, si è rivelata infruttuosa e controproducente, in quanto anziché aprirmi all’accettazione di uno stato di alterazione mi ha alterato ed ha reso più arcigne le mie misure difensive. Il mio arredamento interno non stava sviluppandosi secondo i piani, e forse il mio stesso amico Cesare non avrebbe voluto che io cercassi di modellare la mia indole per via di un autoinganno.
Pertanto, poche righe di Bukowsky hanno presto lasciato spazio a Deleuze: vale a dire il gorsso delle dispense fornite dall’artista. Riecco affiorare in me il critico diligente, che prepara l’arredamento interno con perfetto stile razionalista (ma con spazi lasciati all’estro e all’imprevisto). In fin dei conti è meglio partire da una solida diligenza, piuttosto che da un conciliante lassismo, se si intende affrontare un’azione collettiva corrosiva del fisico e della morale. Lo scopo di tale azione sarebbe in gran parte vanificato se, agendo, non incontrasse resistenza alcuna.
Tuttavia il viaggio in treno è breve. Dopo aver riposto Bukowsy ed aver rapidamente sfogliate le dispense che già avevo marcato con note e sottolineature, questi pensieri sulla resistenza mi hanno frettolosamente accompagnato a guadagnare la banchina della stazione. Oramai non c’era più tempo per rifinire il mio arredamento interno, perché di lì a poco il mondo mi si sarebbe fatto incontro ed io sarei stato troppo affaccendato a fare gli onori di casa. All’auditorium incontro alcune amiche, nessuna delle quali parteciperà come discente-trangugiatricedivino. Insieme vediamo parte della mostra allestita su Maciunas dopodiché prendo congedo per andare a ritirare il mio litrozzo di vino. Nei loro sguardi leggo l’eccitazione per la goliardìa della sfida. Loro sanno meglio di me quanto poco questa sfida si confaccia al mio tipo. Io me ne dimentico e procedo piuttosto meccanicamente versio la sede in cui sorge l’estemporaneo tempio di Bacco. Sono solo leggermente innervosito dal cogliere nel mio atteggiamento una certa dose di intellettuale tracotanza. Ma fa parte degli armamenti di cui dispongo per la difesa. Me lo perdono.
Consapevole che alla fine della performance le mie amiche avranno un punto di vista diverso dal mio, riesco anche ad affrontare con leggerezza il pericolo della perdita di informazioni oggettive. Sostenuto dalla volontà di confrontare nei giorni a venire i diversi tipi di scritti che risulteranno da esperienze eteronegnee rispetto ad una stessa azione, mi seggo al tavolo centrale e sistemo le mie carte, oramai convinto di non poter fare più alcunché di sbagliato. Sovrappensiero, ancora non toccato dal vino, mi ritrovo con la penna nera leggermente inclinata verso l’alto nella mano destra e lo sguardo nel vuoto mentre il curatore, Achille Bonito Oliva (d’ora in avabti ABO), prende la parola per introdurre la performance. Sin dall’inizio la sua presenza appare come un’intrusione. Rappresenta un’istanza del potere che Deleuze e Pietroiusti vorrebbero scardinare, effettua interventi scontati ed autocompiacenti. Soprattutto non berrà nemmeno un goccio di vino, ma si sentirà autorizzato ad adeguarsi ai comportamenti sregolati che sarebbero andati normalmente assumento gli altri partecipanti, via via sempre più ebbri. Non stà lì come un amico, né finge di esserlo. Questo perché deve dimostrare di stare su un altro piano, ma di sapersi, allo stesso tempo, adeguare. Vero niente.
Pietroiusti sta al gioco, ma appena prende la parola si scaldano gli animi. L’attenzione è catalizzata sulle sue presenti parole ma ancor di più sulle future non-parole che riuscirà a far circolare.
D’ora in poi il resoconto potrebbe essere riassunto in poche righe: quelle necessarie per dire che l’artista, secondo copione, ha mostrato ottima competenza nell’enucleare l’evoluzione del pensiero rizomatico e i temi portanti di Millepiani. Sempre secondo copione, egli è riuscito a mantenere più alta di tutti gli altri la soglia di attenzione e lucidità, dimostrando – punto questo fondamentale, che riprenderò più in là – si saper reggere il vino. Di fronte a palesi sragionamenti o a presunte acrobazie concettuali da parte dei membri dell’uditorio lui ha saputo mediare con competenza ed ironia, senza mai lasciarsi vincere dal vino come giustificazione all’accantomanento della ragione. Sarebbe quindi del tutto superfluo fare una descrizione del contenuto manifesto della lezione (basti leggersi le dispense – nessun intervento del pubblico è parso meritevole di nota, e per lo più tutti noi denotavamo principalmente la volontà di certificare la nostra presenza). Ciò che ritengo più utile fare è cercare di analizzare i contenuti latenti della performance e i suoi orizzonti teorici.
Io sono del parere che ci siano almeno tre aspetti da prendere in considerazione per poter interpretare l’opera proposta da Jacopo, Filipa e Cesare:
_Aspetto Morale
_Aspetto Gneoseologico
_Aspetto Estetico
Aspetto Morale
Inizio dall’aspetto morale, quello che più pressione esercitava sulla mia persona nell’immediata vigilia della performance in quanto:
– assumendo io una osservazione partecipante rischiavo di perdere lo sguardo critico (come dettoin precedenza: di lasciare che lo sguardo critico si annebbiasse);
– cercando io di condurre quotidianamente una vita salutare rischiavo di contravvenire a direttive mediche e morali secondo le quali sono solito scegliere quando sono chiamato ad agire secondo coscienza e responsabilità.
Filosofi come Herbart, Wittgenstein e Santayana hanno considerato molto da vicino i rapporti intercorrenti fra etica ed estetica. Lo hanno fatto considerando come primaria la categoria della valutazione. Questa non è un semplice giudizio intellettuale, bensì un’operazione che coinvolge l’individuo fin dalle sue più profonde risorse emotive. Fra i filosofi citati, è forse Santayana quello che a costruito un modello teorico che meglio si adatta all’analisi dell’aspetto morale dell’opera di Pietoriusti. Secondo Santayana l’estetica di distingue dall’etica in quanto i giudizi estetici sono affermazioni positive di un valore, laddove il giudizio morale nasce e si sviluppain relazione alla percezione del male. Mai come nella performance di Pietroiusti i due livelli si scontrano, offrendo una duplice risoluzione:
– affermazione del piacere del bere (e del sapere)
– apertura di una parentesi che consenta l’eccesso (e per contrasto giustifiche la morale al di fuori di quella ce è la zona franca dell’arte)
Il frutto della vite, infatti, infonde energia vitale… ma in modo ambiguo è anche dispensatore di morte (in modo simile alle caratteristiche di Dioniso). Tuttavia l’atto del bere, nel suo eccesso, viene racchiuso in un ambito performativo, quello artistico, che arricchisce e delimita allo stesso tempo l’azione in una sfera della semiotizzazione umana, che in questo modo fornisce all’azione una cornice rituale. Come, ad esempio, tra i pitagorici, l’atto del bere era considerato sacro e necessario all’attività filosofica, ma solo in quanto incluso in un logaritmo di prassi altamente codificato. Solo se entra a far parte di un rito, l’atto può essere giustificato moralmente, legittimato mitologicamente ed offrire a tutti i commensali un beneficio condiviso.
Aspetto gneoseologico
Dioniso portò la cività fra gli uomini, oltre al vino.Questa bevanda, vero nettare degli dèi fra i greci, è considerata fonte di verità (fu il poeta greco Alceo a coniare la locuzione che noi usiamo nella versione latina: in vino veritas). I riti dionisiaci non erano solo orge tese all’appagamento sessuale. L’eccitazione dionisiaca mirava ad una forma più alta di conoscenza.
“La mania prodotta dall’assunzione della bevanda di Dioniso (autentico stato di perdita della ragione che si manifesta in una ossessione indomabile) corrisponde ad una perfetta visione dell’oggetto desiderato” (Donà). Secondo tutta la tradizione dei simposi e di tutti tipi di libagioni propedeutiche al filosofare, possiamo considerare il desiderio di vedere o assuemre l’oggetto desiderato (il sapere) attraverso la simbologia della vite e del vino. Nell’introiettare quell’oggetto che è altro da sé, il filosofo deve saperlo integrare, subendo sì un’alterazione, ma riuscendo a mantenere una certa individualità psicologica e stilistica che permetta di dare forma ed oggettivare l’alterazione registrata.
Si consideri Socrate, quel grande amatore della carne e del sapere. Un ricercatore instancabile che il mito descrive come un bevitore che, pur non mettendo mai freno al vino, mai nessuno ha potuto vedere ubriaco. L’inestinguibilità della sua curiosità filosofica (so di non sapere e sempre più lo bramo e ricerco), fa coppia con l’inestinguibile sete di vino. Mai perso coscienza, Socrate dimostra di saper “reggere il vino” come nessun uomo. Allo stesso modo la sua ricerca filosofica che sconfina oltre i limiti dell’uomo, che necessariamente deve arrestarsi su un certo numero di convinzioni, scrivere libri, affermare i propri risultati. In questo modo, questa figura eccezionale, può inaugurare la ricerca di quella verità che ama nascondersi. La verità, celata, può assumere mille forme e, contro ogni tentativo di fissazione individuale, non puà appartenere a nessuno.
L’operazione artistica proposta da Pietroiusti è schiettamente postfilosofica in quanto attiva una messa in scena collettiva e disequilibrata del sapere filosofico che si radicalizza seguendo un percorso che parte dai non-libri di Socrate, che passa attraverso il non-libro dei vari Deleuzes e Guattaris e giunge ad esplodere in una forma extra-libresca ed extra-logica.
> Per approfondimenti sull’estetica conoscitiva secondo Perniola, si legga questo mio articolo.
Aspetto estetico
Una questione che sembrerebbe rientrare nell’aspetto morale, sarà invece da considerarsi prettamente estetica, vale a dire connessa con con la tematica del sentire. Di certo è morale il rischio nel quale con il vino si rischia di incorrere: lo smarrimento della libertà e dell’autodeterminazione. Ma, come vedremo, questa liberà ha s che fare con i limiti di un sentire organico che si espande.
Come sappiamo già dai tempi di Aristotele l’alcol non può essere considerato un attenuante nel caso di un’azione illecita compiuta sotto il suo influsso. Costituisce, bensì, un aggravante. in quanto l’azione illecita è stata preceduta da dalla colpa di essersi abbandonato all’ebbrezza.
Nel campo estetico, tuttavia, questo rafforzamento, giova alla ricerca di un sentire meno parcellizzato e slegato dalla dialettica soggetto desiderante/oggetto desiderato. Se, infatti, come dice Fichtel’uomo è libero soltanto se lo vuole – “se egli non è libero significa che non vuole ma che viene spinto” – tuttvaia esiste lapossibilità che, riconosciuta la libertà come un’utopia irraggiungibile e persino non desiderabile, l’uomo voglia essere spinto! Il voler esserespinto, che in ambito morale viene condannato come perdita di libertà ed abbandono alla necessità, in ambito estetico coincide con quella tensione verso il sentire inorganico che Perniola descrive proprio a partire dal concetto di Corpo senza Organi di Deleuze (contenuto nel testo in esame, “Millepiani”).